Decide il popolo. Sembra un concetto banale ma non lo è. Dietro la decisione di Emmanuel Macron, certamente irrituale perché si è votato per le Europee e dunque malgrado la dirompente novità del successo dell’estrema destra non esisteva alcun obbligo di sciogliere il Parlamento, c’è qualcosa di molto francese. Il popolo è tutto, nella cultura politica della Francia, anche prima della Rivoluzione che elevò al livello più alto la forza del popolo grazie al fatto che nel 1789 la massa divenne popolo perché si organizzò attorno ai grandi valori della ragione illuministica. E divenne perciò il soggetto della democrazia, che è poi intimamente connesso alla libertà di scegliere il proprio destino (autodeterminazione).

«Il legislatore può instaurare un rapporto di benevolenza che va da lui al popolo e dal popolo a lui», scrive Diderot nell’Enciclopedia e addirittura «in uno Stato piccolo come la Svizzera il legislatore è il popolo stesso»; e sta qui la sede della Ragione in Rousseau, pur con tutte le contraddizioni che sappiamo, ed è il popolo dell’idea romantica che inneggia a Napoleone, il quale il popolo europeo volle elevare. E ancora dopo è il popolo di Parigi a sbarazzarsi dei Borboni e via via fino al Novecento, le due guerre, il Front populaire, le lotte politiche degli ultimi settant’anni tra grandi partiti popolari, il Sessantotto. Fino ai gilet gialli, se si vuole, alla jacquerie metropolitana contro Macron: di nuovo il popolo, quello borbonico-reazionario contro quello orleanista-democratico e di sinistra.

La richiesta al popolo e la mossa cinica

Il Presidente, che nella quinta Repubblica è il buon padre di famiglia, adesso chiede al popolo di dire cosa vuole perché, ha scritto Bernard Henri Levy, «siamo a due passi dal vedere, quasi un secolo dopo Vichy e per la prima volta attraverso le urne, l’estrema destra prendere il controllo dell’Assemblea nazionale e dell’Eliseo. La Francia è di fronte alla Storia». Che poi dietro la mossa di Macron vi possa essere una buona dose di cinismo – “vedrete come la destra governerà male”, sarebbe il retropensiero – è senz’altro possibile conoscendo il suo ésprit florentin che ricorda da vicino quello di Francois Mitterrand. Tuttavia questo non contraddice la “francesità” dell’appello al popolo, ai cittadini (“aux àrmes, citoyens”) richiamato al dovere repubblicano di fare barrage ad una destra che non è quella tradizionale e pallida di Georges Pompidou, non quella seccamente conservatrice di Jacques Chirac e nemmeno quella tecnocratica e di potere di Nicolas Sarkozy, non parliamo poi della destra antifascista di Charles De Gaulle. Ma quella di origine neofascista, xenofoba e striata di antisemitismo di Marine Le Pen e del suo alleato Eric Zemmour. Si capirà che la Francia en colère, da anni perennemente nevrastenica, è giunta a uno dei grandi spartiacque della sua storia.

Lo spartiacque

L’abissale differenza tra l’idea francese di popolo e il populismo “sudamericano” che ha fatto breccia, eccome, anche in Italia, da Beppe Grillo alla destra al governo è questa: la cultura democratica francese ha fiducia nel popolo e nella sua saggezza mentre i dirigenti populisti disprezzano il popolo, lo usano, lo blandiscono, per l’utile personale, familistico, di clan. Non a caso Macron, nella ormai storica conferenza stampa nella quale ha annunciato le elezioni il 30 giugno e il secondo turno il 7 luglio, lo ha premesso: «Ho fiducia nel popolo francese». È il riflesso appunto dell’intreccio tra democrazia e ragione che è alla base della cultura illuministico-democratica francese, diversa per esempio da quella italiana, più avvezza al gioco di Palazzo, a quella scaltrezza diplomatica retaggio di una certa mentalità gesuita, infine sospettosa delle tendenze popolari. Da noi ci sarebbe stato un rimpasto, un governo tecnico, di tregua, balneare. Emmanuel Macron ha preferito il rischio, forse per lui mortale, forse perfino terribile per i suoi concittadini, di consegnare la Francia alla destra estrema. Deciderà il popolo francese, in fondo solo nelle sue mani può essere il suo destino.