Oggi sembrano una voce sola. Mieli e l’Elefantino, i politologi bolognesi e le ciliegie, il quotidiano comunista e i papisti. L’Occidente sta sbagliando tutto, dicono. C’è la terza guerra mondiale a pezzi e non importa a nessuno. Le nostre opinioni pubbliche sembrano oscillare tra l’indifferenza di chi tiene famiglia, le bandiere arcobaleno che guardano a Gaza e ignorano Kiev, l’abiura della civiltà atlantica da parte di accademici e giovanotti della East Coast. Sia pure con ogni variante, la deprecatio temporum mette assieme sinistra e destra, liberal e conservatori, maîtres à penser e odiatori, pacifisti e interventisti. Un unanimismo che sollecita molti dubbi.

Davvero l’Occidente contemporaneo è cieco? Davvero le cose andavano diversamente nel bel mondo antico? Ora, non voglio usare la storia come una clava. Eppure, a ridimensionare taluni giudizi, forse basterebbe qualche ricordo personale (per i più attempati) o qualche vecchia citazione libresca (per chi ha fatto il classico).

Certo, l’opinione pubblica appare distratta, proprio mentre il gigante russo sta distruggendo l’ordine europeo sancito dal 1991. E certo, gli occidentali non sembrano credere davvero che Putin finirà un giorno per sfilare sotto le loro finestre, a Vilnius, a Varsavia, magari sui Fori Imperiali. Ma l’opinione pubblica (dice la petulante storia) è fatta così, meglio farsene una ragione. La reazione corale dei popoli alla dittatura, l’epopea dei coraggiosi per la libertà è roba da serie tv. Roba da Anpi.

A Berlino, nella ricca e civilissima Berlino, il dittatore, appena conquistato il potere nel 1933, poté massacrare migliaia di oppositori negli scantinati dei condomini, nei pressi dei night club di Friedrichstrasse. Mentre si compiva la strage, i grandi magazzini erano affollati come sempre, le automobili erano lucide, i caffè aperti fino all’alba. E nei cinematografi furoreggiavano i film di Hollywood, nei circoli buoni il jazz, nelle sale da ballo lo swing. C’era Hitler ed era facile capire di che pasta fosse fatto, ma l’americanizzazione dilagava e la Coca-Cola inaugurò due stabilimenti in città.

E mentre gli studenti bruciavano in piazza i libri, la grande mostra sull’Arte degenerata, che nel 1937 intendeva ridicolizzare la cultura occidentale, fu visitata da ventimila berlinesi al giorno. Tutti d’accordo. E tutti sordi alle urla che venivano dalle camere di tortura sotto casa. Nessuna reazione. Nessuna empatia per le vittime. “Una sorta di cecità selettiva”, è stato detto. Ovvero vedere soltanto ciò che si vuole vedere.

Del resto anche i colti berlinesi credevano alle fake news. E che fake news! Nel 1939, alla vigilia del cruento attacco a Varsavia, presero per oro colato la propaganda del regime, che paradossalmente addebitava ai polacchi la volontà di invadere la Germania. Erano furiosi per l’insolenza polacca. E anche quando la guerra iniziò, ci misero del bel tempo prima di capire.

Ancora nel 1940 gli hotel erano pieni e i berlinesi gremivano i caffè, facevano la fila per vedere Tannhäuser e Madame Butterfly, riempivano i cinema del Kurfürstendamm. Il primo natale di guerra fu splendido, tra luminarie, cenoni, regali. Era il processo di civilizzazione (Elias) che indietreggiava? Erano tutti feroci nazisti? Erano l’opinione pubblica. E mai fidarsi di un’opinione pubblica.

Del resto, in quegli stessi mesi, era distratta e miope anche l’opinione pubblica francese. I francesi, come si sa, attesero immobili per otto mesi, dopo la canonica dichiarazione di guerra, che Hitler prendesse l’iniziativa. Avrebbero dovuto, quanto meno, completare la Linea Maginot e rafforzare l’aviazione, ma non mossero un dito. Le fabbriche di automobili continuavano a produrre vetture da turismo invece che armi. E i soldati si limitarono a schierarsi sulla linea del Reno. Dall’altra parte, a poche centinaia di metri, c’erano i tedeschi, ma loro passavano il tempo a fare il bagno nel fiume, mangiavano molta carne, avevano tre quarti di vino al giorno. E visto che si annoiavano, i comandi distribuirono palloni da calcio e organizzarono spettacoli teatrali.

Nella Ville Lumière, nel frattempo, la vita era sempre dolce, almeno per chi poteva permettersela. E i giornali erano pieni dei gossip sulle cosiddette “Signore della Repubblica”, cioè l’amante del primo ministro e l’amante del ministro degli esteri, le quali partecipavano molto attivamente alla vita politica, influenzando le decisioni dei loro uomini, sebbene non ne avessero alcun titolo.

Poi, notoriamente, la notte del 9 maggio 1940 la Wehrmacht passò all’attacco e i francesi precipitarono nel pozzo della realtà. La Germania ci mise poche settimane a mangiarsi la Terza Repubblica. Insomma, le cose andavano davvero meglio quando andavano peggio? Le opinioni pubbliche ebbero mai un ruolo decisivo nelle dinamiche dell’europea contemporanea? O fu magari un ruolo nefasto?

E d’altronde, si parva licet, c’è qualcuno che si ricorda del leggendario Sessantotto? Io me ne ricordo. Ero sbarcato dalla lontana provincia abruzzese nei cortili magnifici dell’Ospedale Maggiore di Milano, nelle aule nuove di zecca della Statale, e giocavo a fare lo studente modello, seguivo le lezioni di pezzi da novanta come Fubini, Musatti, Geymonat ma, più ancora, mi applicavo alla lettura – o meglio allo studio – di un vero e proprio canone ideologico, di un pacchetto di testi che comprendeva gli impossibili Grundrisse, Lenin, Tronti, Marcuse, ma anche Salinger e Aristarco, anche i dialoghi icastici di Schulz, anche il calcio di Gianni Brera.

E naturalmente, nei cineclub affumicati, il cupo Bergman. Tutto, dalla filosofia ai cartoon, era già scritto. Ho detto “canone ideologico”, ma dovrei dire canone esistenziale. Perché quella finiva per essere la nostra vita. Tendenzialmente, noi non sorridevamo mai, troppo seria e impellente era la minaccia dell’imperialismo americano.

Certo, oggi siamo disgustati dai giovani della Normale che gridano al genocidio dei gaziani, ignorando il massacro degli ucraini, e giustamente recriminiamo sulla crisi della formazione in Italia (e non soltanto in Italia), ma i colti universitari degli anni Sessanta andavano poi a parare al mito di Mao, quando Mao massacrava decine di milioni di cinesi. E avevano in camera il manifesto di Fidel, quando i castristi torturavano e gettavano nelle galere migliaia di oppositori. E non solo.

Mentre le ubbie della generazione Z sono roba di piccoli gruppi, minoranze, briciole insomma, noi sessantottini fummo capaci di partorire movimenti di massa che mettevano in crisi i governi. Per non dire di dieci anni e più di lotta armata. E una domanda mi sono spesso fatto in questi mesi, ripensando a quei terribili errori di gioventù. Quanto avremmo capito i complessi scenari geopolitici che oggi accusiamo i ragazzi di ignorare, se mai la crisi di Cuba fosse precipitata? Quanto saremmo stati pronti a difendere il nostro paese, se la guerra fredda fosse diventata guerra guerreggiata? Se fossimo stati costretti a scendere dal pulpito dell’internazionalismo proletario (filosovietico)? E c’è davvero da stupirsi se anche oggi l’opinione pubblica tace o, tutt’al più, in moderate proporzioni, scende in piazza per difendere una pace astratta e, peggio, capziosa? Dicono che la storia insegni qualcosa. È vero. Ma non sempre insegna cose edificanti.

Paolo Macry

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