Politica
I referendum vanno a vuoto: bisogna abbassare il quorum. Una soluzione epistocratica
I referendum, con le petizioni e l’iniziativa legislativa popolare, sono gli strumenti di democrazia diretta che la nostra Costituzione, vocata invece alla democrazia rappresentativa, ha conservato per mettere le norme approvate in Parlamento in sintonia con il popolo sovrano in alcuni casi specifici. Nella prassi della democrazia repubblicana abbiamo verificato, in verità, la scarsa efficacia della petizione e dell’iniziativa legislativa popolare. Con il referendum abrogativo è andata un po’ meglio nei primi anni di applicazione, soprattutto quando i quesiti interpellavano direttamente questioni etiche comprensibili da tutti (divorzio, aborto) e non affogavano nelle tecnicalità che diventarono pane quotidiano delle inflazionate iniziative radicali. Peraltro, all’epoca i partiti politici erano veri, e non dei brand personali appannaggio esclusivo dei leader.
I precedenti
In fondo, i referendum sono storia della Prima Repubblica, che crollò proprio sulla spinta dei plebisciti contro le leggi elettorali proporzionali: dal 1997 ad oggi, solo quello del 2011 sull’acqua è riuscito a centrare il quorum. Nei fatti, più che mezzo a disposizione del popolo, il referendum abrogativo è diventato spesso strumento di conflitto politico nelle mani dei partiti, o di quello che resta di loro. Spesso si raccolgono firme per provocare “effetti collaterali” diversi dall’abrogazione: per sollevare voce di popolo contro il governo in carica, per battere un colpo ricordando al mondo che chi lo promuove esiste sulla scena politica, per godere dei programmi a par condicio in tv. Inoltre, se si fa quorum, si ha diritto anche a un rimborso che può raggiungere i 2,6 milioni di euro per i promotori.
C’è bisogno di referendum in questa stagione di crudele disincanto dalla politica? Diremmo proprio di sì: vediamo ormai consolidata la fuga di almeno la metà degli elettori dal voto, che va parallela al rafforzamento, al limite dell’esondazione, del ruolo del governo e del primo ministro in particolare, con la rappresentanza parlamentare ridotta di più di un terzo, le leggi elettorali che tolgono al cittadino la possibilità di scelta del parlamentare, e la prospettiva di avere il premierato elettivo tra qualche mese. Ce n’è abbastanza per puntare a un riequilibrio che dia voce al corpo elettorale attraverso strumenti di democrazia diretta.
Il governo di chi conosce
Ma come si fa se a votare ci va una minoranza? Abbiamo letto autorevoli voci che in queste ore spiegano come l’abbassamento del quorum di validazione aiuterebbe a rivitalizzare lo strumento. Sarebbe un accomodamento che si accontenta di ciò che statisticamente si va affermando da decenni, peraltro figlio di una piena suggestione “epistocratica”. Non ci si spaventi per la parola: viene dal greco antico, piegato alle ragioni dei moderni, composta da epistème (che vuol dire “competenza”, “conoscenza”) e kratos, che vuol dire “governo”. Dunque il governo di chi conosce, di chi è competente. Pur essendo stata recuperata al dibattito contemporaneo dall’americano Brennan, con il suo libro Against Democracy del 2016, il principio della necessità della competenza al potere risale alla Repubblica di Platone. Brennan – che criticò il suffragio universale anche alla luce della pervasività della comunicazione digitale, capace di alterare la cognizione razionale della scelta politica lasciando il posto a quella umorale – resta nel recinto del pensiero democratico, contrastando l’oligarchia e la tecnocrazia. Per lo studioso americano, infatti, non deve esserci barriera di censo o di titolo di studio per poter esercitare il diritto di elettorato attivo e passivo, ma solo di comprensione e piena consapevolezza di ciò che si va a scegliere coinvolgendo con il proprio voto il pensiero dell’intera comunità.
L’idea epistocratica
Chi chiede l’abbassamento del quorum per il referendum, in fondo, si avvicina all’idea epistocratica, sottintendendo che solo chi è andato a votare domenica e lunedì scorsi l’ha fatto con consapevolezza piena e meritevole di riconoscimento. Riducendo l’area dei “virtuosi”, dunque, si accetta la teoria di Brennan. Il che significherebbe che l’epistocrazia ha rappresentato la regola al tempo del voto sul divorzio, con l’87% di partecipanti al voto, mentre dal 2011, con l’affluenza in rapido crollo, si è dato luogo al suo annullamento. Discutiamone, per carità. Ma attenzione: sarà inevitabile impattare sull’abbandono delle urne nel voto politico. E allora diventerà impossibile evitare di incontrare Brennan.
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