Ci è parso utile e per certi versi inevitabile dedicare la riflessione di PQM, questa settimana, al tema – in verità secolare – della pena. Ce lo impone la macabra e quasi petulante contabilità dei suicidi nelle nostre carceri, uno scandalo che non esiterei a definire mondiale, ma che continua a non interessare né chi ci governa, né la gran parte – io temo – della pubblica opinione. Perché quei suicidi, è ovvio, denunciano la insopportabilità della pena che quei detenuti erano chiamati ad espiare. Una intollerabilità che va misurata certamente rispetto alle concrete condizioni di espiazione, cioè le nostre vergognose, scandalose carceri; ma anche e forse innanzitutto rispetto al senso della espiazione in atto, ed alle prospettive che quella pena così espiata costruisce per la futura, riacquistata libertà. Lo Stato che infligge la pena a chi si è accertato l’abbia meritata viene meno – questo è il punto – al suo dovere primario, che è quello di fare in modo che quella pena abbia un senso per chi deve espiarla.

La disperazione di chi giunge a suicidarsi è solo la punta dell’iceberg di una ben più largamente diffusa rassegnazione al vuoto tragico dell’espiazione, ridotto alla pura e semplice funzione di esclusione del reo dal contesto sociale. Un parcheggio all’inferno, che ha un perché nella causa che l’ha determinato, ma non ne ha alcuno nella prospettiva, nel dopo. Perché se la pena non è altro che ritorsiva esclusione dal contesto sociale, ti prepara a null’altro che alla definitiva e certamente più dolorosa esclusione da libero. Perciò quando la pena sarà espiata, ed il reo restituito alla propria libertà, la società si vedrà restituire, necessariamente, un candidato naturale alla reiterazione del crimine, un escluso dalla vita sociale che non avrà altro modo ed altra ragione di vivere la propria riacquistata libertà se non la recidiva, ove non voglia vivere, come è del tutto naturale ed umano che sia, come uno scarto in un angolo buio.

L’ottusa cecità dei fanatici del buttare la chiave non riesce a leggere questa banale verità: che la pena umana è, innanzitutto, una pena utile per la collettività. Una pena umana, cioè espiata in condizioni rispettose della dignità personale, ma soprattutto pensata ed organizzata per creare le basi di una speranza che la futura libertà possa essere vissuta in modo diverso dalla reiterazione del crimine, è una pena utile per la società. Dunque istruire, addestrare all’apprendimento di una professione, occuparsi delle ragioni piscologiche e sociali che hanno indotto il detenuto a delinquere, affrancarlo insomma dal suo destino, o dal destino che egli si è costruito, è certamente una condizione di umanità della pena, dunque un valore in sé; ma è prima ancora una ovvia, scontata, banalissima esigenza di autoprotezione della società.

Naturalmente, questa riflessione non può riguardare la “carcerazione preventiva”, come sarebbe giusto tornare a chiamare la custodia cautelare, perché qui si sconta la pena prima ancora del processo e del giudizio di responsabilità. Una violenza inaudita, che è possibile giustificare solo in casi di conclamata, manifesta pericolosità del soggetto accusato ma non ancora condannato. Ed invece, grazie al micidiale abuso della nozione di “pericolo di reiterazione del reato”, questa violenza continua a riguardare quasi un terzo delle persone detenute nelle nostre carceri: c’è altro da aggiungere? Tanta carne al fuoco, anche questa settimana, su PQM. Buona lettura.

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Avvocato