Chissà se qualcuno ringrazierà il gip di Reggio Calabria Vincenzo Quaranta e il procuratore capo Giovanni Bombardieri per aver atteso il giorno successivo alle elezioni europee per eseguire i 14 provvedimenti cautelari per uno “scambio elettorale- mafioso” che coinvolge anche il sindaco del Pd Giuseppe Falcomatà. Una delicatezza rimasta estranea alla magistratura genovese che ha arrestato il 7 maggio scorso il governatore della Regione Liguria Giovanni Toti. Per il quale, chiuse le urne che avrebbero potuto indurlo a “ripetere il reato”, il suo avvocato Stefano Savi ha chiesto proprio ieri la revoca del provvedimento cautelare.

In Calabria il nome del sindaco di Reggio pare la classica ciliegina sulla torta che rende appetibile l’inchiesta giudiziaria per la stampa nazionale. Anche perché accanto ai nomi degli arrestati che secondo l’accusa farebbero parte della “cosca Araniti”, le parti politiche coinvolte sono di tendenza tra loro opposta, dal Pd cui appartengono Falcomatà e il consigliere comunale Giuseppe Francesco Sera, fino a Fratelli d’Italia, partito di cui è capogruppo in Regione, l’avvocato Giuseppe Neri. Per gli ultimi due, la Dda aveva richiesto anche la custodia cautelare, non accolta dal gip. Ennesima inchiesta di mafia, in questo caso essendo in Calabria ‘ndrangheta, quindi, da affiancare a presunti reati di tipo elettorale. E pare sempre impossibile, per alcune procure, scindere i due ambiti, spesso anche davanti all’evidenza dei fatti, nei momenti delle sentenze. Il procuratore Bombardieri, affiancato dagli aggiunti Stefano Musolino e Walter Ignazzitto, oltre che dal pm Salvatore Rossello, in questo caso pare molto convinto della propria ipotesi accusatoria, tanto che si è affrettato, di fronte al diniego del gip, a ricorrere al tribunale del riesame per ottenere le manette per i due consiglieri, quello comunale del Pd e l’altro regionale di Fratelli d’Italia. Toni morbidi invece nei confronti di Falcomatà, che rimane solo indagato.

L’inchiesta nasce nel 2019, in un altro mondo della politica, quando la Regione Calabria era governata dalla sinistra e il presidente si chiamava Mario Oliverio, quello la cui carriera politica subirà un brusco arresto per grazia di un’altra magistratura, quella di Catanzaro, e lo scarso coraggio del suo partito, il Pd. La “cosca Araniti” è sospettata di attività di estorsioni anche rispetto a pubblici appalti e a uno “stringente controllo” sul territorio. Secondo i carabinieri del Ros ci sarebbero state irregolarità in diverse votazioni negli anni successivi, in particolare in tre tornate elettorali. In quella comunale di Reggio Calabria del 2020, vinta dal centrosinistra, che ha eletto il consigliere Giuseppe Francesco Sera e lo stesso sindaco Giuseppe Falcomatà. E poi nelle due regionali del 2020 e 2021. Nella prima che aveva visto trionfare il centrodestra ed eleggere a governatore Jole Santelli, e nella successiva del 2021 che aveva incoronato Roberto Occhiuto dopo la morte improvvisa della presidente.

In queste tre occasioni elettorali il voto sarebbe stato truccato da uno degli arrestati, parente di altri della “cosca Araniti”. In cambio avrebbe fruito di consulenze e altre utilità nell’ambito di enti pubblici. Come sempre in questo tipo di inchieste, oltre alla necessità di provare il nesso di causalità tra le elezioni dell’uno e i vantaggi erogati all’altro, secondo lo schema classico del rapporto politico-imprenditore, più difficile è provare l’aggravante mafiosa. Che in genere viene motivata come la finalità ultima dell’indagato di supportare e accrescere la forza della cosca. Inutile ricordare quello che ha ripetuto anche di recente lo stesso ministro Nordio, perché la contestazione del reato di mafia rende la vita molto facile agli investigatori, cui più facilmente il giudice consente di intercettare ed arrestare.

Il sindaco di Reggio Calabria Giuseppe Falcomatà è indagato per scambio elettorale politico-mafioso. Sfortunato, il primo cittadino calabrese. Si era appena rilassato ed era da pochi mesi rientrato al suo posto, dopo la sentenza di assoluzione della cassazione dall’accusa di abuso d’ufficio in seguito alla quale, in base alla legge Severino, era stato sospeso dalla carica di sindaco. La vicenda era un classico caso, simile a mille altri, che riguarda sia questo reato, facile da contestare e poi difficile da provare, sia il rapporto tra eletti ed elettori. Nel caso di Falcomatà la vicenda risaliva all’anno 2014, quando l’imprenditore Paolo Zagarella aveva concesso gratuitamente alcuni locali per la segreteria elettorale del candidato sindaco. Il fatto era emerso l’anno successivo, quando il sindaco e la giunta avevano approvato una procedura di affidamento dell’hotel Miramare allo stesso imprenditore Zagarella tramite l’associazione “Sottoscala”.

Secondo l’accusa, questo affidamento mostrava alcune irregolarità procedurali. Da qui l’accusa di abuso d’ufficio nei confronti del sindaco, del segretario comunale e di sette assessori, tutti sospesi e condannati sia in primo grado che in appello. Poi in cassazione, nell’ottobre dell’anno scorso, era stato lo stesso procuratore generale Roberto Aniello a dire che il fatto avrebbe dovuto essere qualificato diversamente dall’abuso d’ufficio, e che comunque ormai era anche prescritto. E c’è da chiedersi perché si sono persi nove anni di attività giudiziaria, nel frattempo. E perché il Parlamento non si affretti ad abolire questo reato che rende solo più complicata la vita delle amministrazioni. La domanda successiva potrebbe essere: ancora Falcomatà?

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.