“Chi è senza peccato scagli la prima pietra” verrebbe da dire guardando con disincanto alle vicende che hanno accompagnato il varo della cosiddetta legge sull’autonomia differenziata. Che, poi altro non è che l’attuazione delle disposizioni contenute nel terzo comma dell’articolo 116 della Costituzione. La cui latitudine, a sua volta, è delimitata dal terzo comma del successivo articolo. Quel complesso di norme, com’è ben noto, raggruppate sotto l’usbergo del Titolo V, non nacque per caso. Fu il prevalente risultato di una scelta compiuta alla fine della XIII legislatura, nell’ultima seduta del Senato (8 marzo 2001), il giorno prima di chiudere i battenti.

Nel pieno di quella campagna elettorale che avrebbe segnato profondamente i destini del Paese e che avrebbe dato avvio all’alternanza dei governi. Strano destino quello delle leggi che hanno cercato, in vari momenti, di cambiare gli assetti istituzionali della Nazione. Come avvenne in passato con la legge delega sul “federalismo fiscale” (legge 42 del 2009), destinata a rimanere una scatola vuota per l’impossibilità di varare i successivi decreti legislativi. Il cui onere avrebbe reso quanto mai difficile la gestione delle finanze pubbliche italiane. Scenario che sarà necessario evitare nei prossimi mesi, per dare al Paese la speranza di una prospettiva diversa. Per farlo è necessario che cessi questa guerra sorda tra le opposte fazioni. Che, come mostra la storia più recente, altro non ha prodotto che l’immobilismo più spinto e senza respiro. Il che non ha certo migliorato le condizioni complessive del Paese.

Il Mezzogiorno è regredito

Negli anni alle nostre spalle, il Mezzogiorno è regredito. Salvo la breve parentesi del “miracolo economico”, come ricordava Nicola Rossi, nel suo bell’intervento su Il Riformista. In generale le aree più produttive del Paese hanno contribuito a finanziare i territori più svantaggiati, ma il divario non è certo diminuito. Cosa che dovrebbe far riflettere: quello alle nostre spalle è stato un gioco a somma negativa. A Sud le attese di chi avrebbe voluto, giustamente, di più essendo tutti all’ombra della stessa bandiera. A nord la rabbia di un prelievo forzoso che, a molti, è sembrata acqua utilizzata per irrigare uno sterile deserto. Un meccanismo che va rotto per rispondere ad un interesse generale. Se i quasi 80 anni alle nostre spalle, senza contare quelli dello Statuto Albertino, hanno solo aumentato il fossato tra le due Comunità. Se negli anni più recenti, esso è ulteriormente cresciuto a causa delle trasformazioni intervenute nel “modello di sviluppo” dell’economia italiana. Se nel mondo il problema del sottosviluppo è stato, almeno in larga misura, avviato a soluzione: basti pensare al ruolo di Paesi quali la Cina, la Tailandia e più in generale al Sud Globale.

L’Africa cresce più del Sud Italia

Se la stessa Africa presenta tassi di crescita di gran lunga superiori a quelli del Mezzogiorno italiano. Se solo in Italia non è successo niente. Tutto ciò dovrebbe far riflettere ed invitare al cambiamento. Consapevoli dei guasti provocati dalla semplice difesa di uno status quo. Che, sta uccidendo ogni speranza e ogni voglia di emancipazione. A meno che non si voglia dire che il problema del sottosviluppo, fino a ieri piaga del Terzo Mondo, oggi è caratteristica quasi esclusiva di una parte del territorio italiano. Non è mia intenzione entrare nel dibattito politico attuale. Ma osservo che in economia non esistono soluzioni “a prescindere”. Ricette che non hanno tempo e spazio. Al contrario, il problema è individuare, come rabdomanti, la logica specifi ca dell’oggetto specifi co. Il vecchio Marx ha ancora qualcosa da insegnare. Ebbene, di fronte ad un Paese spaccato come una mela, non ha senso diagnosticare ricette uniformi sull’intero territorio nazionale. Se così fosse, si potrebbe prescrivere la stessa medicina tanto a chi ha un raffreddore, quanto a chi ha, invece, una polmonite.

Il 70% dell’export prodotto nel Nord

Ebbene le differenze, in Italia, balzano agli occhi. E non è solo questione dei nostri giorni. Nell’immediato dopoguerra l’unificazione del Paese fu garantita dai “cafoni” che, con le valige di cartone abbandonavano le terre dei loro padri per raggiungere il “triangolo industriale”. Figli di contadini calabresi, pugliesi, campani che vedevano nel loro lungo viaggio verso Milano o Torino un elemento di promozione sociale. Ed in quelle nuove terre costruivano quei primati che avrebbero portato la vecchia lira, e quindi l’Italia, a ricevere l’Oscar della stabilità. Con un beneficio seppure indiretto nei confronti dello stesso Mezzogiorno che, come ricordato prima, vedeva ridursi il suo squilibrio rispetto al resto dell’Italia. Oggi quel triangolo si è riformato, anche se non ha la stessa configurazione. Non c’è più Torino, ma Milano, Bologna e Treviso. Dal Nord ovest, l’asse si è spostato verso il Nord est. Ma la logica è rimasta la stessa. Ora, come allora, il nuovo catalizzatore dello sviluppo è dato dalle esportazioni, rispetto ad una domanda interna che non cresce in modo adeguato. Ebbene il 70% del nostro export è prodotto nel Nord (dati ISTAT 2022 e 2023).

Nel centro-nord si produce, al sud si consuma

Quella vecchia maledizione che attribuiva al Mezzogiorno la responsabilità di dissipare, a causa delle maggiori importazioni, gran parte delle risorse accumulate grazie al buon andamento del commercio internazionale, è tornata dirompente. È tornata perché mentre nel Centro nord, seppure con ritmi diversi, si produce; nella restante parte del territorio italiano soprattutto si consuma. E si consuma grazie al flusso dei trasferimenti interni di risorse, intermediati dallo Stato centrale. Il nobile gesto della solidarietà che, tuttavia, a lungo andare ha frenato ogni spinta individuale verso la “necessità del fare”. Che ha rappresentato, in tutti gli angoli della Terra, la premessa di un riscatto di carattere generalizzato, che ha seguito le orme della globalizzazione. Questo è oggi il ritardo che si vede ad occhio nudo non solo tra le diverse regioni italiane, ma tra l’intero Mezzogiorno e le altre parti del Pianeta che, solo alcuni anni fa vivevano in condizioni assai peggiori. Ne hanno sofferto soprattutto i corpi intermedi della società meridionale, spesso trattati con sussiego da parte dei loro omologhi più fortunati. Perché fare impresa non solo al Nord, ma in tutte le “economie emergenti”, avviare una professione, trovare un lavoro dignitoso è molto più facile che non al Sud. Implica, quasi sempre, una maggior fatica, riflesso di un ambiente respingente nei confronti di ogni ipotesi di crescita e di sviluppo.

Rompere questo schema è soprattutto nell’interesse del Mezzogiorno. Che deve reclamare la presenza di uno Stato più efficiente ed in grado di supportare gli sforzi di una minoranza attiva, quanto si vuole, ma che può e deve crescere. Quello Stato che non solo deve essere ancora costruito, ma che richiederà non meno, ma più riforme. A partire dal superamento di quella frammentazione istituzionale che impedisce ogni ipotesi di reale ed effettiva programmazione. Il Mezzogiorno non è il Nord, da liberare da una burocrazia soffocante, che ne limita le capacità di movimento. Che abbassa l’efficienza complessiva di un motore che deve rimanere attivo, per reggere alla competizione internazionale. Nel Mezzogiorno le politiche non possono che essere diverse. Se c’è un modello da evocare, questo è quello del New Deal di Theodore Roosevelt con le sue agenzie – in passato c’era la Cassa del Mezzogiorno – in grado di contribuire allo sviluppo di un territorio che abbia la dimensione critica indispensabile, come può essere quella di una macro regione. Che anche allora segnò il perimetro operativo di quella Cassa. Il problema è trasformare quel gioco a somma negativa in positivo.

Cambio di marcia culturale in primis

In questo senso il CNEL può e deve rappresentare lo strumento attuativo di un cambio di marcia innanzitutto culturale. Per valorizzare il ruolo dei corpi intermedi, delle molteplici forme di rappresentanza sociale ed economica, restituendo protagonismo agli interlocutori territoriali ed agendo nell’ottica di una rigenerazione dei processi di sviluppo. Un ruolo rinnovato che si interseca con il processo istituzionale in atto. Attraverso la presenza attiva del CNEL nel dialogo con le Regioni, già prevista nel corpus normativo, ancorché finora poco praticata, è possibile strutturare un pensiero economico incentrato sul superamento di una dicotomia che appartiene definitivamente al passato, realizzando quel cambiamento di prospettiva che occorre al Mezzogiorno. Non più o, almeno sempre meno, un atteggiamento compassionevole, ma la richiesta di diritti legati ai requisiti di una nuova cittadinanza, fondata sulla necessità di un riscatto. Al Nord una società più libera di autogestirsi per produrre maggiori risorse che non serviranno solo a sé stessa, ma per garantire quelle riserve – si pensi soltanto al peso del debito pubblico – che servono all’intero Paese. Su basi diverse può nascere qualcosa che, in passato, caratterizzò il grande salto di qualità del dopoguerra. Ovviamente tutto ciò non è scontato. Ma vale la pena provarci. E il CNEL farà, come sempre, la sua parte. Perché è nell’esercizio delle questioni più difficili che si misura la forza delle istituzioni.