Sono giorni di fibrillazione per l’assetto geopolitico mondiale, ma sotto quei movimenti tettonici si muovono mille tensioni altrettanto drammatiche, alcune più evidenti come i movimenti di migliaia di persone intrappolate nei teatri di guerra e altrettante che premono per rientrare proprio in quei territori in cui magari risiedono le proprie persone care, altri movimenti sono più sotterranei, apparentemente, ma non per questo meno irruenti.

Per esempio lo scontro in corso nelle comunità LGBTQ di tutto il mondo, in prossimità della ricorrenza dei Moti di Stonewall che si svilupparono la notte del 28 Giugno 1969 e che videro la comunità LGBTQ newyorkese, in lutto per la morte di Judy Garland, ribellarsi violentemente contro l’ennesimo abuso omofobico da parte della polizia. Il Pride celebra quei moti che iniziarono la lotta di liberazione delle persone LGBTQ dalle discriminazioni e dai soprusi della polizia. In buona parte delle parate degli ultimi anni, infatti, sono comparse e poi si sono moltiplicate, le bandiere palestinesi, a significare la vicinanza dei manifestanti alle ragioni dei palestinesi nel conflitto contro Israele, nonché l’intersezionalità delle lotte di liberazione dall’oppressione. Qui sorge il busillis.

Chi opprime chi? Il dibattito nelle comunità LGBTQ mondiali è molto acceso, e a volte assume toni drammatici. Se il Pride è la celebrazione dell’inizio della lotta per la liberazione delle persone LGBTQ e il focus dovesse necessariamente, per qualche motivo, centrarsi sulla situazione mediorientale, a molti verrebbe da associare tale celebrazione al lavoro di quegli splendidi ragazzi che nelle Open House israeliane accolgono centinaia di giovani allontanati dalle famiglie di origine, molti dei quali di origine araba, molti dei quali perseguitati nei propri Paesi di origine, per cui fuggono da discriminazioni, ma anche da torture e spesso dalla pena di morte con processo sommario.

Queste Open House si reggono sul volontariato e sui contributi statali e delle amministrazioni locali, con molte difficoltà e sacrifici fatti solo per l’amore per i propri simili. Questi ragazzi dovrebbero, in un mondo coerente, essere al centro delle celebrazioni del Pride, mostrati come esempio di resilienza e di coraggio. Non è per niente facile essere un ragazzo omosessuale e arabo, specialmente per chi offre un servizio pubblico di accoglienza a rifugiati anch’essi arabi. Invece no, ci sono masse di manifestanti che invece di celebrare questi eroi, inneggiano a chi con lo slogan “dal fiume al mare” vorrebbe poter cancellare Israele, e tutte le sue meravigliose persone, dalla faccia della terra, come se fosse un corpo estraneo, come se non fosse previsto che in quella terra martoriata dalle dittature teocratiche assassine ci potesse vivere un popolo che si è organizzato liberamente e laicamente in una forma democratica. Un corpo estraneo come sono considerate in quei regimi le persone LGBTQ, tanto che sentono la necessità di negarne l’esistenza e, alla bisogna, sopprimerle. Queste persone, invece di celebrare quei ragazzi disperati e coraggiosi, come dovrebbero, se la prendono con chi bastona i loro aguzzini. Non è difficile chiamarli collaborazionisti!

Marco Volante

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