In passato si è spesa in veste di attivista per sensibilizzare il territorio sui temi di inclusività, ma ora non si riconosce più nella deriva della galassia Lgbt e si tira fuori. Francesca Riccitelli, ragazza transessuale, non partecipa al Pride di Avezzano (L’Aquila) e lancia una serie di stoccate al mondo arcobaleno. Dice no all’utero in affitto, critica il ddl Zan e invita alla cautela sul cambio di genere. Denuncia ostentazioni e tematiche divisive che hanno un unico obiettivo: «Etichettare il centrodestra come un nemico». E la sua non è l’unica voce fuori dal coro. «Non siamo in pochi a criticare il monopolio della sinistra più radicale», spiega al Riformista. A cui fa una confidenza inattesa: preferisce Giorgia Meloni a Elly Schlein.

Una ragazza transessuale che non partecipa alla sfilata del Pride. Non è un paradosso?
«No, non è un paradosso, perché negli ultimi tempi i Pride sono diventati il megafono di istanze di estrema sinistra, da centro sociale, assai divisive e non condivise da buona parte delle persone omosessuali e transessuali. Non si cerca affatto di instaurare un dialogo serio e costruttivo con tutte le forze politiche. Si preferisce dare spazio all’ostentazione, all’esclusione, al settarismo, anziché lottare per una società più giusta e inclusiva».

Immagino che la galassia Lgbt avrà rispettato democraticamente la sua decisione senza ripercussioni…

«Sono stata oggetto di attacchi anche molto violenti: prima hanno cercato di isolarmi, poi mi hanno allontanata, perché ho il coraggio di dire ciò che penso senza peli sulla lingua. Non ho padroni, sono una persona libera ma al tempo stesso orgogliosa della mia identità. Il Pride dovrebbe essere questo. Gli atteggiamenti pacchiani lasciano il tempo che trovano, non aiutano a fronteggiare i veri problemi che ancora possono esistere per le persone omosessuali e transessuali, ossia l’accettazione familiare e l’inclusione sociale e lavorativa. Questi atteggiamenti li lascio volentieri a loro, fermo restando il mio diritto di prenderne civilmente le distanze».

È il cortocircuito del progressismo woke che mette ai margini le voci di dissenso interne?
«Sì, il woke è un’ideologia che sta mostrando tutti i suoi limiti in questa fase storica. La vittoria di Trump, la crescita delle forze conservatrici avrebbe dovuto spingere in generale i movimenti progressisti a riflettere sul fatto che c’è qualcosa che non va in questo approccio. Invece sembra che non vogliano sentire ragioni, e più perdono consenso (anche dall’interno) più tendono a voler censurare ed escludere le opinioni divergenti, sprofondando così verso un abisso che è negativo – a prescindere da come la si pensi – oltre che per loro, anche per un sistema democratico come il nostro». 

Ma il suo dissenso sarà un caso isolato…
«No, non è affatto un caso isolato. Questi movimenti sono oggi in gran parte guidati da una minoranza estremamente rumorosa, con poche eccezioni. Ma le voci dissonanti esistono, e io ne sono un esempio. Non siamo in pochi, esistiamo e ci sono anche tra noi persone che accettano di esporsi, essendo pronte ad affrontarne anche le conseguenze».

E perché c’è chi ha paura di esporsi?
«Hanno paura perché già affrontare un coming out non è semplice, in più esiste un clima di intimidazione preoccupante nei confronti del dissenso interno agli ambienti Lgbt+, per cui dire chiaramente ciò che si pensa potrebbe precludere l’accesso a spazi considerati sicuri e a servizi che spesso vengono offerti per il tramite di queste associazioni. Perciò occorre rompere il monopolio esercitato da parte della sinistra più radicale in generale su questi temi. Ci sono temi divisivi che andrebbero tolti dal dibattito, altri su cui può e deve esserci una convergenza trasversale».

Lei è favorevole o contraria all’utero in affitto?
«Esprimo da tempo una netta contrarietà a questa pratica, che rappresenta una mercificazione del corpo femminile delle gestanti. Spesso i futuri bimbi vengono scelti su cataloghi appositi e in base a contratti capestro che vengono imposti e devono avere precise caratteristiche: se non le rispettano, la pratica può non concludersi. Questo lo trovo di una crudeltà allucinante. L’utero in affitto è giusto che resti reato: una società civile non può accettare questo, in quanto oltre a calpestare i diritti delle gestanti non tiene conto dei diritti dei bambini coinvolti a crescere con la propria madre».

E del cambio di genere cosa pensa?
«Una delle prime persone che decise di sottoporsi all’intervento chirurgico di riassegnazione sessuale in Italia fu Tatiana Borsa, una mia concittadina di Avezzano. Questo poco dopo l’approvazione della legge n. 164/1982, che tuttora disciplina gli interventi chirurgici e il riconoscimento legale del nuovo sesso anagrafico. Questa legge è stata oggetto di diverse sentenze che nel corso del tempo ne hanno modificato l’applicazione, semplificando l’iter. Accoglierei con favore eventuali proposte volte a modificare la normativa passando da un procedimento giudiziario a uno amministrativo, riducendo dei costi non necessari che possono ostacolarne l’accesso. Tuttavia, respingo categoricamente le richieste di introduzione in Italia del cd. self-id, ossia il cambiare legalmente sesso con semplice autodichiarazione. Delle verifiche, delle relazioni mediche psicologiche o psichiatriche ed endocrinologiche dovrebbero essere sempre necessarie, a tutela in primis delle persone interessate, ma anche del sistema. La transessualità è una condizione seria che non andrebbe strumentalizzata per inseguire agende ideologiche o teorie astratte come il gender».

Veniamo alla politica. La mancata approvazione del ddl Zan è stato un insulto al mondo Lgbt?
«Il ddl Zan era una proposta divisiva, strumentale e identitaria portata avanti dalla sinistra più radicale. Anche all’interno del campo largo c’erano delle forti perplessità, manifestate ad esempio da Ivan Scalfarotto e da Italia viva, che hanno poi portato alla mancata approvazione del testo. L’aspetto più preoccupante, evidenziato anche da autorevoli giuristi, consisteva nella definizione fumosa di identità di genere contenuta nello stesso testo, che prescindeva dall’aver concluso un percorso di transizione. Il principio di tassatività dovrebbe contraddistinguere ogni norma penale incriminatrice, secondo quanto previsto dalla Costituzione. Esso non può essere affidato a sensazioni soggettive e perciò impossibili da accertare giudizialmente».

Nei volantini per i cortei Pride ci sono espressioni contro l’uomo bianco occidentale e il capitalismo. C’è lo zampino della sinistra?
«Assolutamente sì. Trovo queste espressioni gravi e preoccupanti, perché rischiano di associare l’intero movimento e l’intera comunità (se di comunità si può parlare) ad ambienti che in realtà sono sì rumorosi, come dicevo prima, ma assai minoritari e marginali. Si parlava anche di antispecismo, di anticapitalismo, di kinky e BDSM. Penso che non siano queste le priorità da sottoporre all’attenzione della politica. Si rischia così di rendersi ridicoli o di alimentare conflittualità non necessarie. Io non sono anticapitalista, non sono antioccidentale, anzi ritengo che la nostra cultura liberale e occidentale rappresenti il presupposto di ogni libertà civile di cui possiamo godere in questo spicchio di mondo. Dovremmo considerarci fortunati: in molti Paesi a maggioranza islamica o in via di sviluppo, l’omosessualità e la transessualità vengono ancora criminalizzate».

Lei, da ragazza trans, è terrorizzata da questo governo di destra?
«No, non sono terrorizzata da questo governo. Anzi, apprezzo la linea pragmatica e ragionevole che Giorgia Meloni e il suo governo stanno tenendo su diversi temi, in particolare la politica estera, ma anche l’economia, l’Europa, l’immigrazione. Nessuno mette in discussione i diritti civili esistenti. Fare politica significa ascoltare i cittadini, prendere atto dei problemi e mettere in atto delle possibili soluzioni, non imporre ideologie o fare del vuoto paternalismo, sottovalutando le questioni di buon senso poste dalla cittadinanza. Ritengo che occorra instaurare un dialogo soprattutto a destra, dato che questi temi sono sempre stati considerati come ad appannaggio quasi esclusivo del mondo progressista. Sono aperta al confronto».

Mi sta dicendo che gli allarmi della sinistra sono infondati…
«Assolutamente: hanno bisogno di creare e mantenere viva l’idea del nemico ideologico, per non dare spazio alle richieste di confronto sui temi provenienti dall’interno. Le persone coscienziose non scendono in piazza tanto per far chiasso o per mettere in mostra atteggiamenti eccentrici. Chiedono di aprire un confronto trasversale sui temi, di poter quantomeno discuterne, in modo costruttivo e senza pregiudizi. Sono stata alla presentazione di un libro di un consigliere comunale di Avezzano, di Nazione Futura, Nello Simonelli, che colgo l’occasione di salutare. Tra noi c’è grande rispetto reciproco, condivido diverse sue posizioni, altre no, ma esiste la libertà di pensiero e di parola. Etichettare ogni persona che la pensa diversamente come nemico è un’assurdità».

Si sente più rappresentata da Schlein che sale sul carro del Pride o da Meloni?
«Se dovessi scegliere tra le due, con sincerità, al momento più da Giorgia Meloni. È una mia posizione personale, discutibile, per carità. Ripeto: non abbiamo bisogno di marchette, né di gesti simbolici, ma di concretezza e pragmatismo. Penso che Giorgia più di Elly possa rispecchiare queste caratteristiche, anche al di là dei temi Lgbt+».