Urla, Presidente, urla. Quel “fight” a pugno chiuso indirizzato a tutti e a nessuno. Quelle righe di sangue sul viso ostentate a mo’ di cicatrici di guerra. Quella superiorità fisica mostrata perfino nei confronti delle guardie del corpo, troppo più piccole, meno robuste, forse spaventate, rispetto a te, Presidente oramai in pectore, onorato e quasi santificato nella convention di Milwaukee. Ma andando oltre le immagini e la profluvie di parole viste e ascoltate in questi giorni, credo possa essere utile riflettere sul rapporto tra politica ed emozioni.

Giova ricordare che, orientativamente fino agli inizi degli anni Novanta del Novecento, il politico doveva tenere separate sfera pubblica e sfera emozional-privata. Nel 1972, il senatore statunitense Edmund Muskie dovette ritirare la sua candidatura presidenziale perché era stato visto piangere. Qualche decennio prima, Franklin Delano Roosevelt, che si muoveva in carrozzella per aver perso una gamba a causa della sindrome di Guillain-Barré, nascondeva in pubblico la sua “disabilità”. Per il contesto italiano, basti pensare al grigiore emozionale dei discorsi e dei comportamenti pubblici caratteristici della maggior parte dei politici iscritti al partito della Democrazia Cristiana. Oggi, invece, i politici di professione sono abituati a manifestare continuamente emozioni: ben consci del potere ricoperto dai social, si preoccupano di apparire emozionati, di partecipare sentimentalmente ai discorsi intrapresi e ai problemi che vengono loro sottoposti, di (fingere di) condividere qualcosa con il cittadino. Come ha scritto Michel Lacroix: «I politici devono rispondere in modo adeguato alla domanda emotiva dell’opinione pubblica. Essi non potranno esimersi dal mostrarsi umani, compassionevoli, empatici. […] La collettività si riconosce nell’immagine di uomini capaci di vibrare».

È dunque possibile affermare che la politica e i politici di professione sono soliti “giocare” con le proprie emozioni e sulle emozioni degli elettori, utilizzandole spesso come strumenti di comunicazione e di persuasione nei confronti dei cittadini: come una specie di linguaggio seduttivo. Per chiarire meglio il concetto, è propedeutico utilizzare come esempio il rapporto manifestato dai politici con vecchi e nuovi media, di cui conoscono bene il potenziale in termini di visibilità, follower, post, ecc. Ad esempio, difficilmente si tirano indietro di fronte alla richiesta d’intervista, perché sono ben consapevoli che apparire e rilasciare una dichiarazione è fondamentale per la costruzione di quel capitale reputazionale precipuo per la loro sopravvivenza politica. La vecchia “telepolitica” è oggi più che mai una realtà: rilasciare una dichiarazione sui profili social, partecipare a un dibattito televisivo, significa entrare direttamente nei telefonini dei cittadini e, di conseguenza, produrre o meno consenso.

Tale strategia rientra in quelle che la sociologa statunitense Candace Clark ha definito “tattiche emozionali di micropolitica”: 1) esprimere emozioni negative o trattenere emozioni positive ha lo scopo di indurre nell’interlocutore paura o vergogna, mettendolo quindi in una posizione di svantaggio (si riveda l’atteggiamento di Trump nei confronti dei Biden nell’ultimo dibattito televisivo); 2) viceversa, esprimendo emozioni positive e trattenendo quelle negative, gli altri soggetti saranno indotti a esprimere atteggiamenti di simpatia e solidarietà (Trump nei confronti dei suoi sostenitori prima e dopo l’attentato); 3) riuscendo a controllare il livello emozionale dell’altro (magari facendogli perdere la calma attraverso un atteggiamento di freddezza e distacco) si raggiunge il risultato di spiazzarlo e farlo sentire a disagio (è quello che subisce il senatore Muskie); 4) suscitando nell’interlocutore sentimenti di lealtà e obbligo si avrà una reazione non conflittuale da parte di quest’ultimo (in un certo senso, un altro modo per definire il rapporto “do ut des” che ha spesso caratterizzato anche la politica italiana); 5) esprimendo emozioni positive si può assumere un atteggiamento di condiscendente superiorità verso l’altro.

Come ha scritto magistralmente Joshua Meyrowitz in un lavoro pionieristico del 1985: “La forza e la chiarezza di un determinato spettacolo da palcoscenico, o da “spazio di primo piano”, dipendono dall’isolamento del pubblico dal retroscena, o dallo “spazio di retroscena”. Occorre allontanare dai riflettori le prove, i momenti di pausa e i comportamenti tratti da altri ruoli da palcoscenico. Proteggere i comportamenti da retroscena è essenziale quando si recitano ruoli prevalentemente basati sulla mistificazione e sull’aura di grandezza – come quelli recitati dai leader politici”.

La rappresentazione scenica che anestetizza la critica sociale. Mi sembra però che, nel caso di Trump, si tratti anche di una questione legata al processo di auto-riconoscimento: è come se venisse a mancare quasi del tutto quel processo di oggettivazione di sé e di acquisizione di autocoscienza reso possibile dal guardarsi “dal di fuori”, attraverso l’occhio dell’altro. In effetti, il caos cognitivo-emozionale che si aprirebbe nel caso di un’ipotetica esclusione dalla sua nuova vittoria alle elezioni di novembre sembrerebbe renderlo impermeabile a un processo autoriflessivo, più di quanto non lo siano soggetti appartenenti ad altre categorie professionali (anche l’atteggiamento di Biden nei confronti di un suo ipotetico ritiro potrebbe essere una conferma a tale ipotesi).

Il punto da sottolineare è che il politico, conscio di trovarsi sul palcoscenico a recitare un ruolo, ha sviluppato nel tempo una sorta di corazza protettiva per i suoi stati emozionali “autentici”, che impedisce a questi ultimi di manifestarsi nei confronti del pubblico. Il politico crede di dover essere freddo, calcolatore, capace di saper gestire la cosa pubblica, senza cedere alla pericolosa confusione che potrebbe indurre il verificarsi di uno stato emotivo, per definizione non pienamente controllabile. Il fatto che egli si mostri emozionato o sentimentalmente partecipe nel corso delle sue pubbliche attività quotidiane o durante appuntamenti “televisivi” non è che un mezzo per raggiungere quell’obiettivo.

Non voglio affermare che i politici non provino emozioni, ma che manifestino ed amplifichino soltanto quelle più adatte alla circostanza in cui si trovano. Emozioni commerciali, artefatte, che non derivano direttamente dalla loro coscienza ma che si prestano a un utilizzo usa e getta. È una questione che ha a che vedere con il concetto, caro alla sociologia delle emozioni, di “emotion work” (lavoro emotivo). Con tale termine s’intende l’insieme degli sforzi che quotidianamente si mettono in atto per manifestare le emozioni adeguate al contesto sociale nel quale ci si trova e agli obiettivi che si vogliono raggiungere. Si tratta di un management emotivo che rientra nella gestione drammaturgica dei comportamenti messa quotidianamente in atto dai politici nel corso dei loro rituali dell’interazione. Pratica nella quale “The Donald” si muove con consumata competenza.

Massimo Cerulo

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