In alcune circostanze anche una sola parola è un rumore fastidioso, che interrompe il silenzio che dovrebbe accompagnare rispettosamente i lutti, soprattutto quelli così innaturali.
Sono tra gli ultimi che avrebbe il diritto di ricordare Luca Palmegiani, e mi scuso sin da ora con chi lo penserà, ma ho la possibilità di cogliere un messaggio e condividerlo, e credo sia importante farlo. Luca era un mio amico, un ragazzo gentile, educato, impegnato e disponibile: merce rarissima. Lo sentivo vicino, organizzava eventi, si occupava di comunicazione, parlavamo dei master che avrebbe potuto seguire dopo la laurea, raggiunta appena un mese fa. Viveva nella comunità politica e per la comunità politica.

Era cresciuto, come tanti di noi, affiancando alla famiglia naturale una famiglia valoriale, e solo chi ci è passato sa cosa significhi. È difficile spiegarlo ma viaggiare, vivere esperienze e paure. Innamorarsi, intristirsi, lavorare e festeggiare insieme. Ragionare, litigare, svegliarsi al mattino e montare un gazebo. È una storia che ti entra dentro, e dal tutto che si fonde attorno a un ideale, ne ricava una sola anima. Eppure il gesto di Luca, che a 25 anni ha scelto di “varcare il confine della gabbia che lo opprimeva”, proprio alla convention politica di Forza Italia, ha travalicato la sua comunità, ed è stato uno schiaffo trasversale per un’intera generazione.

Costruire un mondo più sano

Non serve per chi è rimasto, amici miei, farsi schiacciare dal senso di colpa, perché salvo i trattamenti sanitari e la cura psicologica che pure vanno normalizzati e sostenuti, spesso nulla si può contro chi ha deciso di disporre della sua libertà più grande. Ha senso invece, per chi è impegnato in politica, a prescindere dallo schieramento, nella comunicazione, nella costruzione della nostra cultura collettiva, nei luoghi di educazione e per chi semplicemente vive in società, costruire un mondo più sano, dove ragazzi come Luca non sentano più il peso dei giudizi sociali opprimenti. La forma più alta della libertà, se davvero vogliamo raggiungerla, si compie con il rispetto reale delle posizioni diverse, e questo limite dobbiamo imporcelo, per migliorare noi stessi, e per pensare, parlare, scherzare e agire in modo da non ferire nessuno.

Dichiarare il dolore per superarlo

Luca era un ragazzo sensibile, che – come ha scritto un’amica – “in un filo d’erba non vedeva solo un filo d’erba”. Si è sentito sbagliato, di troppo, schiacciato, e ha avuto la delicatezza di preoccuparsi per noi, chiedendoci di ricordarlo col sorriso, scrivendo persino un Forza Roma alla fine del suo ultimo messaggio, il più alto. Io sono certo, che ognuno di noi, almeno una volta nella vita, abbia provato un dolore personale così grande da desiderare la fine. Anche solo lontanamente, per poi rinsavire aggrappandosi a un pensiero felice, a un affetto sincero, a una speranza del domani. Ma non è sempre così per tutti, purtroppo, e su questo abbiamo la possibilità, la responsabilità e il dovere di cambiare le cose. Perché la forza non è non avere dolore, ma accogliere, riconoscere e dichiarare il dolore, chiedendo aiuto per superarlo.

E non è un caso forse, che stamattina mi sia capitato tra le mani questo monologo di Godard, che chiedendosi dove fosse la verità, sussurrava: “Poiché i rapporti sociali sono sempre ambigui e il pensiero così come unisce, separa. E le parole uniscono per quello che esprimono, e separano per quello che omettono. C’è un grande abisso che separa la certezza soggettiva dalla verità oggettiva degli altri. Poiché so di essere colpevole, anche se mi sento innocente. Poiché ogni evento trasforma la mia vita quotidiana. Poiché sbaglio a comunicare, a capire. Ad amare o essere amato. Poiché ogni fallimento mi confina nella solitudine. Poiché non posso sottrarmi all’obiettività che mi schiaccia, né alla soggettività che mi esilia. Poiché non posso innalzarmi fino all’essere, né cadere nel nulla, devo ascoltare, devo guardare, intorno a me più che mai, il mondo, il mio simile, mio fratello”.