Esteri
Trump, l’amico inaffidabile (ma non ostile) di Netanyahu: come è cambiata la comunicazione della Casa Bianca

Se Kamala Harris avesse battuto Donald Trump, e fosse oggi presidente degli Stati Uniti, non l’avremmo vista nel ruolo della rispettosa cameriera che fa accomodare Benjamin Netanyahu aggiustandogli la poltrona. Ma non l’avremmo neppure ascoltata nell’elogio, in faccia al primo ministro di Israele, delle virtù intellettuali e della leadership di Recep Tayyip Erdoğan, il dittatore turco che rispetto a Israele e agli ebrei coltiva un risentimento tranquillamente paragonabile a quello di Hamas. Né l’avremmo vista sbertucciare Bibi sui dazi, come invece ha fatto Trump: beccateli e stai a cuccia, gli ha detto, ché già ti diamo quattro miliardi all’anno e cara grazia.
Sono scene solo apparentemente contraddittorie, che in realtà appartengono a un dispositivo di relazioni pubbliche e reciproche perfettamente congruo. Sia pur in modo diverso, e pur nell’ostentata “grande amicizia”, il modulo trumpiano si applica anche a Israele. Non ti prendo a male parole e non ti caccio come ho fatto con Volodymyr Zelensky, anzi ti aggiusto la seduta mentre ti accomodi e ti do le armi. Ma i giochi li decido io: e se mi gira di lisciare il pelo al turco, o di rinfacciarti in mondovisione i quattrini che ti prendi da me, lo faccio senza problemi e tu zitto e mosca.
Non che fossero mancate le avvisaglie. Già nell’imminenza dell’insediamento, e a proposito degli ostaggi, Donald Trump aveva ben lasciato intendere quanto poco fosse sensibile alle esigenze israeliane ove esse non coincidessero con le sue. Israele accettò obtorto collo i termini dell’accordo su Gaza (pochi ostaggi liberati, un cessate il fuoco che avrebbe consentito la riorganizzazione di Hamas). Era un accordo che – così disse Trump – “loro dovevano accettare”. E “loro” non erano soltanto quelli di Hamas: erano anche gli israeliani. Poi le armi sarebbero arrivate, così come il via libera alla ripresa delle operazioni belliche, ma intanto si trattava, per Trump, di mettere nel carniere quel risultato, impagabile anche solo simbolicamente dopo mesi e mesi di inconcludenza della precedente amministrazione.
Adesso a Washington non c’è un presidente che si ingarbuglia quando la CNN gli domanda se le armi americane sono usate “per uccidere i civili palestinesi” (per uscire dall’angolo, facendo anche peggio, Joe Biden biascicò che “sono stati uccisi come conseguenza dell’uso di quelle armi”). Adesso ce n’è uno, Trump, che a una domanda del genere neppure risponderebbe, o comunque non in quel modo da occhiolino strizzato alle platee pro-Pal. Ma questo non significa che per Israele non abbia un costo la compiacenza del tutto particolare di cui può godere nel nuovo corso statunitense. È una specie di amicizia pericolosa, che può garantire lauti guadagni e il raggiungimento di obiettivi impossibili anche solo da immaginare, appunto, se oggi alla Casa Bianca ci fosse Kamala Harris. Ma non è gratis.
Con Biden, Israele aveva a che fare con un alleato ostile, e con la Harris sarebbe stato anche peggio. Con Trump – e comincia a capirlo – Israele rischia di aver a che fare con un alleato capace di dimostrarsi inaffidabile. I sorrisi imbarazzati di Bibi durante il colloquio dell’altro giorno, mentre Trump gli sbatteva in faccia la sovrabbondanza degli aiuti americani, tradivano quella consapevolezza.
© Riproduzione riservata