Le truppe israeliane circondano Gaza e hanno iniziato il loro ingresso nella città. Inizia la parte più difficile della campagna militare: quella della guerra casa per casa, tra tunnel, trappole e miliziani mescolati tra i civili. Ieri il primo ministro Benjamin Netanyahu ha detto che Israele è “al culmine della battaglia”. Parole che hanno certificato come sia ormai prossima la resa dei conti con Hamas, e la guerra, con le Israel defense forces a Gaza city, può prendere la piega desiderata dal governo di emergenza e dai vertici militari. Solo nella giornata di ieri le Idf hanno annunciato l’uccisione di 130 terroristi. Ma la strada, come ribadito più volte da militari e governo, è densa di ostacoli. Nel momento in cui scriviamo, sono già 19 i soldati dell’esercito israeliano morti dall’inizio delle operazioni all’interno della Striscia di Gaza. E il capo di Stato maggiore delle Idf, il generale Herzi Halevi, ha ammesso che l’offensiva ha “un prezzo doloroso”. Un prezzo che Israele paga dall’orrore del 7 ottobre compiuto da Hamas, e che paga anche la popolazione di Gaza, intrappolata nella guerra e diventata un enorme scudo umano. Secondo le autorità locali, i morti sono già più di novemila. Mentre la situazione umanitaria è al limite della catastrofe.

Ieri il direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità, Tedros Adhanom Ghebreyesus, ha chiesto ancora una volta una tregua per permettere l’ingresso di un numero sufficienti di aiuti. E su questo punto è tornato a parlare anche il presidente degli Stati Uniti Joe Biden, che ha confermato la sua idea sulla necessità di pause per permettere quantomeno l’uscita degli ostaggi e degli stranieri dalla Striscia di Gaza e l’arrivo di altri aiuti umanitari. Un aspetto che continua a essere centrale per la diplomazia di Washington, al punto che la Casa Bianca ha deciso di inviare ancora una volta in Israele il segretario di Stato Antony Blinken. Il capo della diplomazia statunitense cercherà già da oggi di convincere Netanyahu a dare il placet per brevi pause nei combattimenti – interruzioni che, come precisato da Washington, non equivalgono a cessate il fuoco – per permettere di raggiungere quegli obiettivi umanitari ritenuti essenziali dall’amministrazione Biden e “minimizzare i danni a uomini, donne e bambini di Gaza”. Difficile che questo avvenga con le truppe già all’interno di Gaza. E lo certifica anche lo scontro tra apparati dello Stato ebraico. Ieri l’ufficio del premier ha specificato che, a differenza di quanto sostenuto dal capo di Stato maggiore, non era stata approvata alcuna consegna di carburante a Gaza. Una scelta dettata anche dal fatto che gran parte della benzina nell’exclave palestinese è in mano ad Hamas. Tuttavia Biden e Blinken cercheranno di fare un ultimo tentativo per limare i piani di Netanyahu. Tentativo che sanno di poter fare anche per il grande sostegno politico militare che il governo Usa ha assicurato a Israele dal brutale attacco terroristico del 7 ottobre.

La fuoriuscita dalla Striscia, attraverso il valico Rafah, di altre 400 persone con passaporto straniero (tra cui una bimba italiana di sei anni) e di 60 palestinesi feriti gravi è un segnale di dialogo. Tuttavia molte sono le variabili che possono incidere su questo fragile equilibrio. E i primi a esserne consapevoli sono proprio gli Stati Uniti e i loro maggiori alleati. Una di queste incognite è il fronte nord, quello con il Libano, dove ieri Hezbollah ha intensificato gli attacchi e da dove alcune frange di Hamas lì schierate hanno lanciato razzi contro la città israeliana di Kiryat Shmona. Le Idf hanno bombardato le postazioni di Hezbollah, ritenuto responsabile per quanto avviene nel sud del Libano. E oggi, in un venerdì che si preannuncia particolarmente intenso, è atteso il discorso di Hassan Nasrallah, segretario generale della milizia libanese. Hamas preme affinché Hezbollah entri nel conflitto, provocando l’apertura di un secondo fronte che divida le forze armate israeliane. Nasrallah, però, nonostante la netta presa di posizione a sostegno dell’organizzazione palestinese e i continui lanci di razzi contro Israele, non è apparso particolarmente interessato a entrare a gamba tesa nel conflitto. E questo è dovuto ad almeno due ragioni. Da un lato c’è la paura che il Libano venga risucchiato in una guerra voluta solo da una sua fazione, quella sciita, e che essa sia poi ritenuta responsabile davanti a un Paese sprofondato da anni in una crisi economica e politica senza fine. Dall’altro lato, un ingresso diretto di Hezbollah si tradurrebbe in un coinvolgimento dell’Iran, con il rischio di una escalation incontrollata a livello regionale. Una seconda incognita è la Cisgiordania, dove continuano le tensioni tra palestinesi, forze armate e coloni israeliani. Ieri un riservista delle Idf è stato ucciso in un attentato, mentre l’Anp di Abu Mazen, di cui l’agenzia Wafa ha dato notizia di una telefonata con Papa Francesco, ha annunciato la morte di tre palestinesi.