Esteri
Israele gela l’ipotesi ‘due Stati’: “Niente regali ai palestinesi”. Raid contro Hezbollah
L’ufficio di Netanyahu spegne le rivelazioni del Washington Post sul piano di Usa e partner arabi. Nel Libano del sud uccisi due comandanti del gruppo sciita
“Non è il momento di pensare di fare regali ai palestinesi“. Il portavoce di Benjamin Netanyahu, Avi Hyman, risponde così alle rivelazioni del Washington Post secondo cui gli Stati Uniti e alcuni Paesi arabi starebbero lavorando su una pace che prevede una “road-map” per la creazione di uno Stato palestinese. Ed è una risposta che arriva anche dopo giorni in cui il negoziato al Cairo sugli ostaggi e la tregua non sembra dare i frutti sperati né ha escluso l’attacco delle truppe israeliane a Rafah. Il Segretario di Stato americano, Antony Blinken, in conferenza stampa a Tirana, ha detto che ritiene ancora possibile un accordo. “Siamo ancora molto concentrati su di esso e credo che sia possibile”, ha detto il capo della diplomazia statunitense. Ma il lavoro di Washington non è semplice.
Ieri i media dello Stato ebraico hanno svelato il viaggio in Israele del direttore della Cia, William Burns, per parlare con il primo ministro Netanyahu e il capo del Mossad, David Barnea e cercare di convincere un “Bibi” sempre più rigido a cedere e raggiungere un compromesso. Il premier è in difficoltà. Da un lato deve mantenere una maggioranza sempre meno legata alla sua leadership e in cui un peso sempre più rilevante lo ha la destra radicale. A questo proposito, basta osservare le parole con cui Itamar Ben Gvir, ministro della Sicurezza Nazionale, ha commentato l’indiscrezione sui due Stati. “L’intenzione degli Stati Uniti, insieme ai Paesi arabi, di istituire uno stato terroristico a fianco dello stato di Israele è folle e parte di un’idea sbagliata, che via sia un partner di pace dall’altra parte”, ha detto il ministro, che ha poi ribadito che “finché noi saremo al governo, non sarà creato alcuno Stato palestinese”. Dall’altro lato, il premier è consapevole che all’esterno non ha il supporto su cui poteva contare nei precedenti mandati. E questo vale soprattutto per gli Stati Uniti, dove il presidente Joe Biden ha manifestato più volte il pieno sostegno alla difesa dello Stato ebraico, ma anche le divergenze riguardo la conduzione della guerra. E dopo le rivelazioni di Huffington Post su indagini Usa riguardo presunte violazioni del diritto internazionale da parte di Israele, il Wall Street Journal ha parlato di un’indagine del Dipartimento di Stato su alcuni raid aerei condotti dalle forze israeliane nella Striscia di Gaza e sul possibile utilizzo di fosforo bianco negli attacchi in Libano.
Mentre il pressing della comunità internazionale non accenna a diminuire, prosegue l’operazione delle Israel defense forces nella Striscia. Ieri, il portavoce delle forze armate, Daniel Hagari, ha detto che vi sono “informazioni credibili di intelligence secondo cui Hamas ha tenuto ostaggi all’ospedale Nasser a Khan Younis” e che proprio lì “potrebbero esservi i corpi” di alcune persone morte durante il sequestro. Le dichiarazioni arrivano dopo il raid condotto dalle forze speciali israeliane nella più grande struttura sanitaria del sud della Striscia. “Portiamo a termine operazioni di recupero mirate, come abbiamo fatto nel passato, dove la nostra intelligence ci indica che vi possano essere corpi degli ostaggi“, hanno scritto le Idf in un comunicato.
L’incursione ha scatenato la protesta delle organizzazioni internazionali. Ma per lo Stato ebraico, la liberazione degli ostaggi, così come il recupero dei corpi di chi non ce l’ha fatta, resta una priorità. E lo conferma anche la scelta del presidente Isaac Herzog di recarsi alla conferenza sulla sicurezza di Monaco con alcune persone liberate dalle mani di Hamas e con alcuni familiari di chi è ancora imprigionato a Gaza e dintorni. Continuano, infine, le tensioni in Libano. Ieri le Idf hanno ucciso due comandanti di Hezbollah, Ali Muhammad al-Debes e il vice Hassan Ibrahim Issa. Mentre il ministro della Difesa, Yoav Gallant, ha parlato chiaro: “Possiamo attaccare non solo a 20 chilometri dal confine, ma anche a 50 chilometri, a Beirut e ovunque”. “Non vogliamo arrivare a questa situazione, non vogliamo entrare in una guerra, ma siamo piuttosto interessati a raggiungere un accordo che consenta il ritorno sicuro dei residenti del nord alle loro case”, ha detto Gallant riguardo la presenza di Hezbollah a ridosso del confine. Ma la tensione rischia di aumentare proprio mentre si tratta per un accordo sull’allontanamento della milizia. Un tema che coinvolge non solo Hezbollah e Israele, ma anche il governo di Beirut e i partner internazionali, desiderosi di giungere a un’intesa che eviti il conflitto.
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