In Calabria si vive un vero clima di paura. Il timore di essere considerati amici della ‘ndrangheta, se si osa discostarsi dal plauso generalizzato all’attività e ai metodi dell’eroismo di chi “vive sotto scorta”, il procuratore Nicola Gratteri. La dice lunga la difficoltà trovata da un gruppo di ex compagni di scuola di Giancarlo Pittelli nell’esprimere solidarietà e condivisione al suo digiuno per la giustizia, iniziato il 12 gennaio. Così sono partiti in pochi, in sette cui se ne sono aggiunti altri tre.

Perché altri, che pure hanno fatto parte delle migliaia di persone che hanno sempre circondato Giancarlo Pittelli di stima e amicizia, sono impauriti. ”La prima reazione –dice Enrico Seta, un ex consigliere parlamentare oggi in pensione, promotore dello sciopero della fame di solidarietà- è il timore di delegittimare la magistratura, e addirittura di offrire una sponda alla criminalità organizzata”. Enrico Seta racconta di aver fatto “il disturbatore” per mesi nei confronti di amici e vecchi compagni di scuola. Non chiedeva di entrare nel merito delle inchieste e neanche di condividere ogni critica avanzata dal loro amico, ma semplicemente di essergli vicino nel momento in cui lui sta mettendo il proprio corpo e la propria salute a disposizione della giustizia, per averne di più, non di meno. Ma ha dovuto toccare con mano il clima di timore. “Anche solo per attestare stima e affetto. Perché nella nostra città, nella nostra Calabria, stiamo assistendo a una vera distruzione del tessuto sociale, a una regressione anche dei rapporti tra persone, per cui il nome di Giancarlo non può neppure essere pronunciato”. “E il problema non riguarda solo l’avvocato Pittelli”, butta lì.

Così ha trovato un legale di Trento, l’avvocato Bonifacio Giudiceandrea, e insieme hanno steso un appello, non per fare i difensori d’ufficio nel processo che si sta celebrando a Lametia, e neanche per dire la loro sull’inchiesta e sulle eventuali prove a carico del loro amico, ma per raccogliere le firme di chi a Giancarlo vuole bene. E per denunciare un clima. Quel che si vive in Calabria. Per opporre “..resistenza a ogni uso degli strumenti del diritto che produca come effetto la paura diffusa e l’inaridimento delle relazioni sociali”. Mettere in discussione non contenuti, ma procedure e effetti, dovrebbe avere l’efficacia di un manifesto sociale e in senso lato politico. E magari spezzare il timore di essere messi dalla parte dei “cattivi”. Ma non esitare a denunciare, come fa questo appello, che ribadisce “affetto e stima” nei confronti della persona. L’uomo al centro, dunque, prima dell’avvocato e del politico. E il circo mediatico-giudiziario posto sotto i riflettori, perché in tanti riflettano e capiscano.

Ecco il passo più saliente dell’appello: “La sopravvivenza di legami di stima e di rispetto, o addirittura di amicizia, agli effetti –anche mediatici- di indagini giudiziarie ancora non concluse non è solo un’esigenza dell’imputato direttamente interessato, ma un elemento essenziale del tessuto sociale, della sua vitalità ed autenticità. Assistiamo invece, in questo come in altri casi, ad una demolizione violenta dell’immagine dell’imputato e quindi di legami sociali costruiti in lunghi anni. Ciò non ha nulla a che vedere con il rigore nella lotta alla criminalità ma rappresenta solo un regresso civile e sociale che nessuna persona libera può accettare”. Se non lo firmano gli amici d’infanzia e i compagni di scuola, chi allora? O sono tutti intimoriti? Tutta la vicenda dell’inchiesta denominata “Rinascita Scott” del 19 dicembre 2019, del resto, è lì a dimostrarne scopi ed effetti. Un blitz con centinaia di arresti, in gran parte poi annullati da diversi organi giudicanti, la gran cassa della conferenza stampa con la pretesa di aver sgominato la mafia in Calabria, o almeno di aver cominciato quella distruzione (“per poi ricostruire come un Lego”) dell’intera regione, cui cui parlava il dottor Gratteri nelle interviste. E da subito l’avvocato Pittelli, indicato come punto di raccordo tra i boss e la società civile. Ciliegina sulla torta, abbiamo definito il suo arresto fin dal primo momento. Strumento della vanità degli inquirenti, anche.

Colui che sta lì, ancora in galera dopo due anni, a giustificare, più di quanto non lo faccia il numero degli imputati, il concetto di “maxinchiesta” e l’uso della maxi-aula di Lametia. E l’ambizione di Nicola Gratteri di passare alla storia come il Falcone di Calabria. Solo che il giudice siciliano portò a processo Riina e Provenzano. Qui stiamo parlando di un avvocato sospettato al massimo di qualche spifferata ai suoi assistiti. E l’ultima accusa, quella di aver “aggiustato” i processi. La più stravagante, se attribuita a un legale cui non solo il procuratore capo di Catanzaro, ma anche gli stessi giudici del suo processo non mostrano certo simpatia, visto che lo hanno sbattuto nella prigione di Melfi, fuori dalla sua Regione, per aver disatteso una sorta di accordo di riservatezza. Ha scritto dai domiciliari una lettera disperata alla ministra ( e deputata) Mara Carfagna, e questo non si fa. Il paradosso è che proprio in questi giorni la Corte Costituzionale ha sancito il vincolo di riservatezza epistolare tra detenuti in regime di articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario e i propri difensori.

Nell’ordinanza si fa cenno anche alla necessità di equiparare quel vincolo a quello che esiste già tra i carcerati e gli esponenti del Parlamento. Quale appunto è Mara Carfagna. Ma i giudici, quelli così amici di Giancarlo Pittelli da esser sempre pronti a farsi influenzare per aggiustare i processi, non ne hanno tenuto nessun conto e lo hanno sbattuto di nuovo (per la terza volta in due anni) in galera. Hanno buttato via la chiave, ci pare. Ma quella porta potrebbe essere riaperta proprio dagli amici che gli vogliono bene e che sono invitati dall’appello di oggi ad aprire gli occhi. A ri-aprirli, per l’esattezza.

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.