«Sono un massone, ma non ho mai avuto nulla dalla massoneria». Inizia con il botto la deposizione spontanea di Giancarlo Pittelli, ex parlamentare di Forza Italia, durate l’udienza questa settimana del processo “Rinascita Scott” dove è imputato per concorso esterno in associazione mafiosa. Pittelli, in video collegamento dal super carcere di Melfi dove è detenuto dallo scorso dicembre dopo la revoca dei domiciliari per aver scritto alla ministra Mara Carfagna, ha esordito affermando di non essere “un folle e un visionario” e che le sue parole “saranno pietre in questo processo”. «Ho scritto a Mara Carfagna – ha esordito – perché dal giorno del mio arresto, il 19 dicembre 2019, io esisto nei servizi giornalistici che hanno trattato anche argomenti di gossip sulla mia vita privata. Si è fatto strame della mia vita, della mia famiglia, di 40 anni di attività professionale. Una campagna di stampa senza precedenti nella storia di questa regione. Mi è stata tolta la pelle, sono un uomo per bene e onesto».

Il racconto di Pittelli ai giudici del tribunale di Lametia inizia dal 1983 quando, poco più che trentenne l’avvocato cosentino Ernesto D’Ippolito gli propose di candidarsi al Parlamento nel Partito liberale e di iscriversi nella sua loggia massonica. «Ho rinunciato a uno scranno sicuro ma decisi di iscrivermi alla loggia nella quale erano presenti medici, avvocati, funzionari, professori universitari. La frequentazione dei confratelli non fu, però, di particolare gradimento per Pittelli in quanto le attività e la gamma di argomenti trattati «non era cosa per me interessante». Pittelli, allora, chiese e ottenne il trasferimento nella loggia di Catanzaro. Ma in questa sede le riunioni erano “una perdita di tempo”. Nel 1999 arriva la svolta con la proposta da parte di Forza Italia «di candidarmi alla presidenza della Regione Calabria». E anche questa volta, come nel 1983, Pittelli rifiuta la proposta per indicare Chiaravalloti. Uscito dalla massoneria, nel 2001 «sono candidato al Parlamento dove rimasi fino al 2013, tra Camera e Senato». «A me la massoneria non ha mai dato nulla, così come la politica, neppure quando il mio presidente della Regione distribuiva centinaia di migliaia di cause», ha puntualizzato Pittelli.

L’ex parlamentare ha quindi raccontato come nasce il termine “massomafia”. Un termine che a suo dire era stato coniato nel 2007 in seguito agli scontri, giudiziari e non, avuti con l’ex pm di Catanzaro Luigi de Magistris. Scontri che, tra l’altro, portarono a un processo a Salerno, competente per i reati commessi dai magistrati calabresi, durato 12 anni, fino a quando a de Magistris venne tolta l’inchiesta Poseidone. Secondo Pittelli fu de Magistris a coniare il termine massomafia per indicare una borghesia corrotta e i cosiddetti poteri forti. Argomenti che l’ex pm, poi divenuto politico e sindaco di Napoli per dieci anni, ha portato sui giornali e nelle trasmissioni televisive. Con questi argomenti, ha detto Pittelli, «de Magistris si è fatto quattro campagne elettorali. Ecco dove nasce il mito di Pittelli massomafioso capace di aggiustare i processi». Per Pittelli sarebbe questo il momento in cui i pentiti hanno appreso della vicenda e l’hanno riportata nelle loro dichiarazioni.

«È da vergognarsi sentire le parole dei vari Virgiglio e Mantella (due collaboratori di giustizia, ndr)», ha detto Pittelli che ha aggiunto: «Io non sono mai entrato nella stanza di un magistrato se non per un saluto o una richiesta più che lecita». Poi, riferendosi a quei magistrati intercettati a cena a casa sua ha detto: «andate a guardare di cosa abbiamo parlato, citateli tutti, uno per uno». Qualche anno fa, prosegue il racconto, «mi sono iscritto di nuovo alla massoneria del Grande Oriente d’Italia su sollecitazione di un amico chirurgo di Soverato». «Una sola volta – prosegue – mi sono rivolto a un vertice della massoneria per una truffa subita a Ravenna», una questione che non risolse e che si concluse per altre vie. L’ex parlamentare ha anche sostenuto che nel periodo in cui era intercettato, sua figlia studiava alla Luiss e che mai ci sono state intercettazioni su richieste di raccomandazioni per lei, «eppure, forse, qualche conoscenza l’avrei avuta per arrivare ai suoi professori. Ma non l’ho fatto».

I suoi cognati sono costruttori e in 40 anni non hanno mai partecipato a un appalto pubblico, ha ricordato Pittelli. E per quanto riguarda Mantella e le sue dichiarazioni contro di lui, ha definito il collaboratore di giustizia “un furbo” che ha capito «che l’obiettivo in questo processo ero io». In merito, quindi, ai rapporti con il boss Luigi Mancuso, Pittelli ha detto di averlo difeso la prima volta nel 1981 e fino al 2007. «Mai avuto con lui screzi di alcun genere – ha detto – mai ricevuto richieste illecite da parte sua». Poi, per una incomprensione Mancuso gli revocò la nomina. I rapporti si riallacciano nel 2016. Altro capitolo delle sue dichiarazioni spontanee, i rapporti con l’ex agente dei Servizi, già in forza della Direzione investigativa antimafia Michele Marinaro, anch’egli imputato: «Un giorno mi disse che un magistrato della Procura, di cui non farò mai il nome, gli riferì di non frequentarmi più».

A questo punto, Pittelli spiega cosa scrisse su un foglio di carta intestata del suo studio la notte dell’arresto e poi sequestrato dal Ros. Un documento che svelerebbe, secondo l’accusa, come egli fosse stato a conoscenza dei dettagli dell’indagine che lo riguardavano, prima del blitz: «Ho scritto nel tempo tutto quello che mi veniva nella testa e che poteva riguardarmi, solo perché ero preoccupato e perché cercavo di capire». La deposizione spontanea si chiude con i verbali delle dichiarazioni di Mantella portati a conoscenza del boss Mancuso: «È un falso macroscopico, volgare, che non ha precedenti. Io non ho mai parlato di verbali integrali, letti, visti o dei quali ho avuto conoscenza».