Lo scaffale
“La diplomazia della rissa”, il saggio di Picasso, Polli e Vichi sulla crisi della politica e delle parole
La semplificazione e il gergo da rissa dominano le non-discussioni in Rete
Nella Recherche spunta in vari momenti il personaggio del signore di Norpois, un ex ambasciatore che a carriera finita si ritiene ancora al centro di complicate vicende diplomatiche. È un uomo ampolloso, retorico, furbastro. «Quelle sue massime di saggezza politica applicandosi soltanto a questioni di forma, di procedura, d’opportunità, erano altrettanto impotenti a risolvere le questioni di fondo quanto lo è, in filosofia, la logica pura a risolvere i problemi dell’esistenza», dice Proust.
Norpois, «noioso come la pioggia», incarna l’idealtipo del diplomatico di inizio Novecento, tutto chiacchiere e retorica in cui avvolgere mezze verità e qualche bugia. E tuttavia persino in questa evidente caricatura s’intravede qualcosa di grande, cioè il sale della diplomazia: l’uso sapiente delle parole unito a un’eleganza che si è perduta. Un secolo dopo, infatti, vediamo che proprio le parole sono le grandi malate del nostro tempo, con tutto ciò che di disastroso comporta nella diplomazia, appunto, e in generale nella politica.
Per capire meglio tutto questo è veramente molto utile il libro scritto da Antonio Picasso, Stefano Polli e Renato Vichi, “Diplomazia della rissa. Parole alla deriva – Cronaca di un mondo che non c’è più” (Franco Angeli editore). Se Winston Churchill diceva che la diplomazia è «l’arte di dire a qualcuno di andare all’inferno in modo tale che ti chieda le indicazioni», c’è da dire che nella post-politica il linguaggio diplomatico è andato a farsi benedire, o quasi: «La vecchia scuola della diplomazia è sempre più un lontano ricordo – scrivono gli autori – quella diplomazia che sapeva cambiare le carte in tavola con le parole. Insomma, non stiamo parlando dei diplomatici di carriera, che ancora potrebbero cavarsela bene, ma di chi li sostituisce in un lavoro antico che dovrebbe essere fatto di sensibilità, conoscenza, pazienza, educazione e serietà».
È chiaro che l’era di Internet, con il suo metalinguaggio, la sua velocità che impone schematismi, semplificazioni e gergalità rissaiole, ha contribuito a distruggere l’arte della politica come discorso fatto di parole. Internet è violento, perciò anti-diplomatico: «C’è un linguaggio di violenza che pesa sulle nostre vite quotidiane, che si insidia nelle nostre menti e che viene alimentato ogni giorno da nuovi episodi di scontri. Da nuovi match di boxe. Dalle letture dei quotidiani, dei social, su Internet e nei report, è sempre più difficile recuperare fotogrammi di conciliazione, dialogo costruttivo, o più banalmente, di gentilezza. È un problema che va oltre il conflitto tra verità e fake news. Queste ultime infatti vengono urlate, sbattute in faccia all’avversario – pardon, al nemico – in modo che non sia solo spiazzato dai contenuti (non veri), ma anche “rintronato” dal tone of voice. È la prepotenza a vincere. E la vittoria non è data dal compromesso, bensì mettendo Ko la controparte».
Picasso, Polli e Vichi setacciano il quadro mondiale per esemplificare i punti di degrado del linguaggio politico di oggi, le parole vacue e quelle false, le espressioni tese all’inganno e alla suggestione, da Trump a Milei a Putin (ma anche Biden): un profluvio di follie semantiche che stritolano il senso vero della politica, riducendola a poltiglia propagandistica, violentando la realtà del linguaggio, riducendola a un’illusione perduta. Giampiero Massolo nota nell’introduzione che «avere cura delle parole vuol dire riscoprire il senso della diplomazia e ritrovare il valore del linguaggio come atto di responsabilità civile», il che oggi come oggi appare una missione impossibile, ma che va tenuta presente e perseguita.
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