La sovranista finisce suddita di Bruxelles
La metamorfosi della Meloni: da ribelle a suddita dell’Europa
Quale è la reale capacità di governo di Giorgia Meloni, alle prese con il primo incontro con gli statisti della vecchia Europa, che aveva definito “una banda di usurai”? “Atteso che” ci vuole ancora del tempo per formulare un giudizio attendibile, e che “banalmente bisogna fare i conti con il pallottoliere” per determinare la destinazione delle risorse e i ricollocamenti dei migranti, più che della celebrata “fuoriclasse” sembra di essere in presenza di una politica camaleonte, pronta a cambiare idea su tutto.
Da incendiaria parolaia che era, quando esultava per la Brexit e gridava “l’Italia deve uscire dall’euro”, ha adoperato in un attimo tutt’altro linguaggio. Ha rinunciato a minacciare “non dobbiamo uscire noi dall’Europa, mandiamo via i tedeschi” per abituarsi a convivere con le buone maniere della politica. Non può più permettersi di rivendicare, da apprendista della dottrina costituzionale, “il diritto per i cittadini di esprimersi sulla ratifica dei trattati internazionali, compresi quelli sulla nostra presenza nell’Ue”. Ora deve arrendersi dinanzi agli obblighi richiesti dalle appartenenze e dai vincoli europei. Che il politico conviva con la doppiezza è un tratto per certi versi strutturale, che già Machiavelli aveva annotato nei Discorsi. Nelle maschere cangianti che esibiscono nel loro mutevole agire, i potenti sono capaci delle più pirotecniche giravolte perché “hanno uno animo in piazza e uno in palazzo”.
E tuttavia sorprende la celerità con la quale Meloni ha subìto la sua metamorfosi, da calda ammaliatrice della piazza (“le istituzioni europee vengano restituite alla gente e tolte dalla proprietà dei comitati d’affari”) a stanca signora del palazzo che teme il giudizio di Bruxelles, fugge dalle domande e arriva in ritardo in Aula. Un tempo la statista di Colle Oppio sbraitava contro i governanti italiani, accusati di essere dei servi al soldo dell’asse franco-tedesco. Adesso ascolta la voce delle cancellerie nordiche e cerca di accontentare le loro richieste acconciando la legge di bilancio ai rigidi parametri europei. Resiste in solitudine alla ratifica del Mes, ma per il resto percepisce che i nuovi abiti di amministrazione esigono più moderazione. La radicale leader del “polo escluso” di via della Scrofa non può più provocare le cancellerie asserendo che “l’Europa non esiste”. Senza magari crederci sino in fondo, Meloni ha comunque accantonato in fretta i toni concitati che il pubblico registrò quando la sentiva parlare con impeto in piazza. Solo un’estate fa la patriota si scagliava contro «questa entità sovranazionale e non democratica che ha imposto alle nazioni europee le scelte delle élite mondialiste e nichiliste volute dalla grande finanza».
Giunta al palazzo, ha assunto ben altri atteggiamenti, con toni che la mostrano, direbbe Machiavelli, “nel supremo magistrato stare quieto”. Rinuncia a ogni colpo di coda sul pagamento elettronico e, deposti gli anfibi di quando era in guerra, arretra prontamente dinanzi agli ordini che proprio dall’Europa della finanza vengono impartiti. Sarà, seguendo le due ipotesi del pensatore fiorentino, perché nel giro di poche ore è giunta ad “una più vera cognizione delle cose”, oppure il suo travestimento è dovuto alla circostanza che il suo spirito ribelle “è stato aggirato e corrotto dai grandi”. Resta il fatto che della politica che prendeva a pesci in faccia Draghi, e inveiva contro l’élite del potere che aveva tradito la nazione, non restano più tracce. E non persuade la convinzione di Cacciari che siamo ormai di fronte a una grande statista di spessore europeo. Più utile, ancora una volta, seguire Machiavelli. Egli spiegava che “uno principe debbe avere dua paure: una drento, per conto de’ sudditi; l’altra di fuora, per conto de’ potentati esterni”. Fatti i dovuti calcoli delle forze esistenti, Meloni avrà accantonato consapevolmente la paura che viene da “drento”, per la visibile mancanza di ogni opposizione.
Con Letta che smobilita e però testardamente ritarda l’uscita di scena, il governo può dormire sogni tranquilli. Neanche il Conte Dracula, che, per succhiare il poco sangue che resta al Pd, va da Scampia a Torino, da Palermo a Milano alla ricerca del fruitore del reddito perduto, impensierisce oltre il dovuto. Non sarà la sorte degli “occupabili” a costituire una risposta sociale alle politiche del governo. Finché i sindacati e i non-partiti continueranno a mobilitarsi attorno a uno schema tipicamente sudamericano, che da una parte vede i poveri o ultimi e dall’altra i ceti medi garantiti o cognitivi, la destra resterà saldamente incollata al potere. Solo da “fuora” possono venire dei seri grattacapi per il governo. Del resto, già attorno al Salvini furioso, che dal Viminale gestiva le politiche del Conte uno sulle tasse e i porti, venne costruito un cordone sanitario. E il Conte due è stato rimosso anche su ordine delle cancellerie europee, che lo ritenevano inadeguato a gestire le risorse ricevute dopo la pandemia.
Per rassicurare coloro che dall’esterno condizionano i passaggi della politica italiana, la patriota Meloni (che twittava “Putin è meglio di Renzi”) diventa più atlantista della Polonia. Non sarà agevole per lei cancellare le orme delle sue passate infatuazioni. «Oggi scelgo assolutamente Putin, credo che in politica internazionale Obama sia il peggiore presidente degli Stati Uniti della storia». A questa scelta di campo, che rimane sicuramente imbarazzante, Meloni aggiungeva un’ulteriore tonalità: l’amore per i sovranisti anti-europei artefici di democrature e derive illiberali. «Fratelli d’Italia è al fianco del popolo ungherese e di Viktor Orbán, che l’Unione europea vorrebbe sanzionare perché ha il coraggio di dire no all’invasione e no all’islamizzazione dell’Europa». Per pararsi dalle manovre che possono venire da “fuora”, la patriota brandisce il fuoco delle armi contro Mosca dopo aver brindato per la vittoria “inequivocabile” del “patriota” pietroburghese (“Complimenti a Vladimir Putin per la sua quarta elezione a presidente della Federazione russa”). Sanzioni e armamenti sono diventati il nuovo vangelo di una politica madre e cristiana che ha organizzato manifestazioni contro le sanzioni alla Russia («Sono contro le sanzioni non perché sono amica di Putin»), che ha caldeggiato il neutralismo (“l’Europa “deve giocare un ruolo per la pace e avere una terzietà per l’Ucraina”), che ha stigmatizzato l’amministrazione americana («mi sembra che Biden usi la politica estera per coprire i problemi che ha in patria»).
Finché “drento” non si riorganizza una forte opposizione sociale e politica, Meloni può con facilità indossare l’elmetto per far dimenticare in fretta invocazioni arcobaleno ancora calde (“Serve una pace secolare con la Russia”). Per sterilizzare le trappole che vengono ordite da “fuora”, è per lei sufficiente rimodulare i conti della manovra finanziaria secondo gli imperativi numerici di Bruxelles e annunciare vittoria malgrado la condanna di tutte le sue piccole misure simboliche. Chi temeva il manganello come minaccia incombente deve al momento stare tranquillo: è infatti attivo il pilota automatico che dirige dall’esterno le politiche di bilancio. Per dare i segni di una svolta, comunque compiuta a settembre con il voto, al governo non restano che i diritti delle donne, i valori storico-costituzionali della Repubblica e il solito ventre molle dei migranti. Con questa opposizione balbuziente, solo dal traffico di Roma la marcia di Meloni può essere rallentata. E però le inattitudini al comando, la scarsità di cultura di governo, l’improvvisazione del nuovo ceto dirigente, emergono eccome. Le esigenze di accontentare la sua coalizione sociale (sui contanti, sulla flat tax, sulla “tregua fiscale”) costringono Meloni a destinare le scarse risorse verso l’adozione di politiche di decrescita.
Per questo vuoto di strategia il principio di realtà porterà al deragliamento sociale del suo governo, incapace di portare a compimento le politiche di necessaria modernizzazione capitalista tracciate da Draghi. In attesa dell’inesorabile disincanto sull’operato dell’esecutivo, il presidente del Consiglio si butta nella comunicazione. La chiacchiera serve per occultare la stagnazione accompagnata da piccole politiche pro-evasione incompatibili con le esigenze di una grande economia occidentale. Con il suo taccuino, divaga tra gli alberi di natale e i conti della serva che intendono dimostrare matematicamente l’irrazionalità che proprio il fiume di contanti combatte l’evasione. Contendendo a Kim Jong-un il ricorso alla generosa esibizione pubblica della prole per le superiori esigenze di propaganda, la madre e cristiana capitata a Palazzo Chigi è certa che con la magia della comunicazione è possibile nascondere la resa totale alle richieste di Bruxelles. Non è scontato, però, che la macchina della narrazione sia sufficiente a spegnere le sollecitazioni, che presto torneranno a tormentare l’esecutivo, di quanti da “fuora” spingono ad agire con risolutezza per il ritorno di un commissario forestiero.
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