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La “pace cinese” in Palestina: l’accordo che rinvigorisce le componenti fondamentaliste e impone dazi di Pechino

“La Cina è pronta a svolgere un ruolo positivo nell’aiutare la Palestina a raggiungere la riconciliazione interna e a promuovere i colloqui di pace”. È quanto la Repubblica Popolare Cinese scriveva esattamente un anno fa, il 25 Luglio 2023, alla Corte Internazionale di Giustizia incaricata di rendere il proprio “parere” sulle responsabilità israeliane nel presidio dei cosiddetti “territori occupati”. Un anno dopo, la mirabile società comunista dei campi di concentramento e delle esecuzioni capitali di massa, si sarebbe atteggiata a costruttrice di pace convenendo in casa propria i litigiosi plenipotenziari delle formazioni palestinesi (Hamas inclusa), e facendo loro firmare la “Dichiarazione di Pechino”, cioè il documento che sigilla il sodalizio delle bande palestinesi per un futuro di collaborazione nello scenario post-bellico.
Non è davvero stupefacente che la propaganda cinese ne meni vanto, ma è desolante il fatto che molti non collochino la cosa nel posto che merita, tra le fungibili iniziative abituali per quel regime: vale a dire la sperimentata pratica di insediamento economico, finanziario e infrastrutturale che la Cina perpetua con innegabile successo, da decenni, in Oceania, in tre quarti del Pacifico e ormai in più di metà dell’Africa. Erano parole a copertura di tutt’altro quelle che la Cina, un anno fa, spediva all’Aia, così come la “Dichiarazione di Pechino” incarta intenzioni che hanno molto poco a che fare con i propositi di pace, e mirano piuttosto alle decine di miliardi da investire e far fruttare per le prime opere della ricostruzione e alle centinaia necessarie nel medio periodo.
La differenza, rispetto alla costruzione del porto africano che implica l’ordinario “mastruzzo” (insomma l’impiccio) con l’autocrate di turno, è che in questo caso l’intervento cinese insiste su un’area e su interessi geopolitici che sovrastano quelli di puro conto economico. E che dovrebbero trovare l’occidente democratico, e i paesi affacciati sul Mediterraneo in primo luogo, in posizione avanzata anziché in quella del vegliardo che guarda venir su il cantiere. Perché non è per nulla fantasiosa, ma assai realistica, l’immagine del capomastro jihadista e dell’ingegnere cinese che concordano la rimessa a punto dei tunnel e l’altezza degli edifici che sarebbero adoperati per buttare giù gli oppositori e gli omosessuali.
Una riprova esemplare della comune incomprensione di ciò che preconizza questa “Dichiarazione di Pechino”? Il Washington Post che, commentandola, segnala che “gli analisti sono scettici sulle prospettive di questo accordo” perché le fazioni palestinesi finiranno nel solito ginepraio di competizioni, ripicche e attentati. Come se il problema non fosse, semmai, esattamente l’opposto: e cioè un accordo che non esclude ma rinvigorisce le componenti fondamentaliste e che, soprattutto, impone nell’area il dazio cinese.
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