Ci sono storie che ci possono aiutare a ricalibrare i nostri giudizi e il nostro rapporto con i fenomeni migratori, consentendoci di distinguere tra le mille sfumature che li caratterizzano: per i diversi paesi di provenienza, per le più varie dinamiche che li generano e per le storie dei singoli individui coinvolti, ognuna delle quali è ovviamente unica.
Una di queste storie riguarda l’infelice esperienza di vita di una ragazza di origini cinesi, nata in Italia e regolarmente registrata all’anagrafe di Rovigo, che per ben diciassette anni ha vissuto un’esistenza di isolamento e alienazione, senza amici né la possibilità di andare a scuola, costretta com’era a seguire la madre, suo unico punto di riferimento, di laboratorio in laboratorio, in garage e sottoscala dove non solo si consuma lo sfruttamento operaio ma pure spesso si dorme, sepolti in un meccanismo di sopravvivenza inumana e senza futuro.

Parliamo degli opifici clandestini del nord Italia, ma che pure proliferano in quantità nel resto del Paese, dove la manodopera di tanti migranti viene sfruttata per pochissimi soldi, senza alcuna garanzia, con trattamenti spesso al limite dell’indicibile. Si tratta però di storie di immigrazione che non fanno titolo, per le quali più difficilmente si mena scandalo e si erigono barricate. Perché lì, accalcati nelle fabbriche del sottosuolo, ci sono migranti (in particolare donne) che non fanno paura. Anzi, servono: perché tengono in piedi un mercato – a volte, come si è visto, anche del lusso – che genera ricchezza e al quale, senza troppi scrupoli, nessuno vuole rinunciare. Al costo elevatissimo, però, della generazione di veri e propri ghetti, della formazione di sacche impermeabili a qualsiasi più ottimistico miraggio di integrazione. Tanto queste realtà sono chiuse, protette da reti di omertà e segregazione, che la ragazza di questa storia, per quanto nata e vissuta sempre in Italia, dopo diciassette anni non conosceva se non pochissime parole nella nostra lingua. Poi, raggiunta la maggiore età, ha tentato di emanciparsi da quel meccanismo, salvo poi scoprire di non avere un posto nel mondo: senza permesso di soggiorno in Italia, culturalmente estranea ed emarginata qui, come del resto anche in Cina: un paese del quale conosce la lingua, sì, ma niente altro.

Quando diciamo che l’Italia non è il Bengodi che tanti sperano di trovare, dobbiamo far riferimento anche a situazioni come questa. Perché di fronte a storie del genere non dobbiamo solo ribadire la strutturale incapacità di accogliere chiunque raggiunga il nostro Paese, fatto del quale non abbiamo nessuna colpa, ma anche dobbiamo ammettere che certe altre cose le lasciamo quasi passare, perché sono aderenti a una posa di comodo che stona con la litania della sospirata integrazione o con la retorica della tanto decantata civiltà occidentale.

C’è poco da andar fieri di un racconto del genere. Di non essere arrivati, nel corso di diciassette lunghissimi anni, dove una bambina viveva in una fabbrica tessile, sotto la sedia della madre, ricurva al tavolo di lavoro. Questa cosa è successa in Italia, nel nostro civile paese. E questa bambina non l’abbiamo vista, non l’abbiamo portata a scuola, e non l’abbiamo fatta diventare un’italiana, come sarebbe potuta andare se ancora non si continuasse nei vili tentennamenti sullo Ius Scholae.
Non abbiamo colpa di non poter salvare tutti dalle guerre, dalla fame e da ogni altra bruttura del mondo. Non abbiamo colpa perché, anche se sempre si può fare di meglio e di più, tante volte quel che abbiamo sembra non bastare per noi. Ma per questa ragazza? Beh, per la storia di questa ragazza io credo che qualche colpa la abbiamo.