Il dato scarno non è incoraggiante. A 7 anni dal varo della riforma, l’attuazione non è ancora completata: nel Registro Unico iscritti solo 110mila enti su una platea di oltre 300mila potenziali. Certo l’alternarsi di 5 Governi dal 2016 ad oggi non ha aiutato, ma l’impressione è che la grande spinta innovativa che il Governo Renzi aveva impresso alla riforma del Terzo Settore si sia frenata in questi ultimi anni. Salutata come un cambiamento a lungo atteso, accompagnata dal parere positivo convinto delle molteplici realtà associative, di volontariato e di impresa sociale e sostenuta da una chiara volontà politica, la riforma era riuscita – dopo un percorso né semplice né breve – a tagliare il traguardo non solo dell’approvazione delle Camere ma anche degli indispensabili primi decreti legislativi che ne hanno disegnato forma, contenuti e tempi di attuazione. Di quella stagione sono stato protagonista in prima linea, presente all’interno della cabina di regia nazionale del Forum del Terzo Settore e coordinatore dell’area impresa sociale, insieme per altro all’attuale Vice Ministro con delega al Terzo Settore Maria Teresa Bellucci, all’epoca Presidente di Modavi, e ricordo l’entusiasmo che aveva coinvolto tutto il Terzo Settore italiano, di qualsiasi provenienza culturale, non solo per la riforma, ma per l’attenzione, la centralità e la responsabilità che il Governo e le parti sociali tutte ci avevano consegnato.

Dopo 7 anni pare davvero che il livello dell’attenzione e della mobilitazione si sia alquanto affievolito. Certo un percorso tortuoso ne ha accompagnato l’attuazione, complici sicuramente le sabbie mobili del bizantinismo burocratico sulle quali si sono arenati alcuni dei decreti attuativi necessari per realizzare concretamente tutti gli ambiti della riforma. Infatti all’appello mancano ancora ad oggi un decreto attuativo sulle attività di controllo delle reti associative e l’autorizzazione da parte della Ue di alcune norme riguardanti il nuovo regime fiscale degli Ets.

Lacune che ad oggi fanno sì che siano rimaste sulla soglia del registro quasi tutte le associazioni dilettantistiche sportive e dall’altro 22mila onlus, poiché mancando ancora l’autorizzazione comunitaria al nuovo regime fiscale vogliono valutare con calma di non essere penalizzate. Servono quindi ancora dei correttivi legislativi alle norme esistenti che richiedono un aggiornamento, al fine di permettere finalmente alle imprese sociali di poter accedere ai fondi pubblici, di ricevere donazioni in maniera semplificata, di accedere al 5xmille e godere di agevolazioni fiscali.

Ma il dato più evidente è di carattere culturale. Oltre che andare nella direzione di una gestione sempre più responsabile, trasparente e partecipata delle organizzazioni no profit, la riforma lanciava una profonda sfida innovativa al nostro sistema Paese, quella di sviluppare e potenziare il settore dell’economia sociale attribuendogli un ruolo di primo piano per il raggiungimento dei 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030: un’opportunità per stringere partnership con altre organizzazioni, con imprese e PA per aumentare la capacità di attrarre risorse e individuare soluzioni innovative per rispondere ai bisogni della comunità. Una grande call nazionale che chiamava gli Enti pubblici e il Terzo settore a non essere più controparti, l’una che domanda servizi e l’altra che li offre, l’una che definisce cosa fare e l’altra che lo esegue; ma, al contrario, alleati per realizzare insieme una finalità comune.

Era questo forse il cambiamento epocale maggiormente rilevante che ha innestato l’art. 55 del Codice del Terzo Settore, confermato nel modo più autorevole dalla sentenza 131 della Corte costituzionale, secondo cui l’amministrazione condivisa “realizza per la prima volta in termini generali una vera e propria procedimentalizzazione dell’azione sussidiaria” delineata dall’art. 118 della Costituzione; ciò, sempre secondo le parole della Corte, in quanto al Terzo settore “è riconosciuta una specifica attitudine a partecipare insieme ai soggetti pubblici alla realizzazione dell’interesse generale”. Cambiamento che stenta decisamente a decollare all’interno del sistema amministrativo, se ad oggi le Regioni che hanno adottato leggi regionali specifiche sull’amministrazione condivisa sono solo quattro (nello specifico Lazio, Toscana, Emilia Romagna e recentemente l’Umbria).

All’epoca della riforma presentai al Governo l’idea di lanciare un “Piano industriale per i beni comuni”. Infatti il Terzo Settore non è più solo il welfare, ma è coinvolto appieno nei processi di sviluppo locale, che coinvolgono la capacità di stare vicino ai bisogni delle comunità, che gli ETS riescono ad a intercettare perché sono radicati sul territorio. Perché è ormai evidente che in campi come il welfare, l’educazione, la cultura, l’ambiente, l’apporto dell’economia sociale è indispensabile per la realizzazione di servizi accessibili e sostenibili. Per questo ritengo che ancora oggi sia attuale e vada rilanciata l’idea di realizzare un piano industriale dei beni comuni che consenta ad esempio alle varie forme di impresa sociale di gestire, insieme al welfare, beni pubblici, risorse naturali abbandonate. E questo piano industriale può toccare nuovi e importanti settori come quelli del turismo sociale, dell’agricoltura sociale, del recupero dei mestieri, della valorizzazione della cultura immateriale.

Ma per farlo serve una cultura nuova che guardi al Terzo Settore non più e non solo come fornitore di servizi a basso costo, ancillare ad un Sistema Pubblico sempre più in difficoltà tra risorse economiche insufficienti e bisogni che crescono. Serve introdurre a tutti i livelli la cultura della coprogrammazione e partire dalla consapevolezza politica che, per combattere le sempre maggiori diseguaglianze economiche presenti nella nostra società, bisogna uscire dalla cultura assistenzialista che guarda al welfare come ambito di intervento da finanziare esclusivamente con risorse pubbliche per “assistere” i più deboli; cultura radicata sia in una certa parte di sinistra populista e assistenziale che in una destra paradossalmente quasi più statalista e caritatevole della prima.

Emancipazione ed emporwement delle persone, sostegno al protagonismo del territorio, capacità di attrazione delle risorse private, integrazione tra profit e no profit, valorizzazione dei metodi della valutazione dell’impatto sociale nella spesa pubblica. Queste le parole chiave da rilanciare per un Paese che ritiene che il benessere sociale sia causa e non effetto del benessere economico.

Giova ricordare che il Terzo settore che vale il 5% del Pil italiano e conta quasi 7 milioni di volontari (di cui 4,5 milioni assidui). E forse giova rilanciare l’appello che anche in questi giorni il Forum Nazionale del Terzo Settore ha posto al Governo, al fine di definire un piano strategico che investa nel Terzo settore, che “oltre a prendersi cura dei cittadini e delle nostre comunità e dare un contributo importante nella costruzione della coesione sociale, è un soggetto economicamente rilevante che produce occupazione e benessere. E, dunque, merita di essere sostenuto” proprio perché porta ricchezza, in tutti i sensi.

Andrea Fora (Consigliere Regionale Umbria Italia Viva)

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