Il numero da ricordare è questo: 284. Tanti sono infatti i laboratori privati del Lazio abilitati a eseguire tamponi antigenici cui, fino a quattro giorni fa, era stato vietato con provvedimento regionale di fare test molecolari per confermare l’esito positivo dei primi. Quindi, com’è noto a molti cittadini della regione, nel caso infausto di esito positivo del tampone antigenico (tempo 15 minuti) il laboratorio privato doveva alzare le mani. Il molecolare poteva esser fatto solo presso le strutture della sanità pubblica. Tempo d’attesa: 4, 5, 7 giorni a seconda della sorte. 4, 5, 7 giorni di incertezza sul proprio destino; 4,5 7 giorni in un limbo che ognuno viveva a modo suo: chi chiudendosi in casa e trascurando il lavoro, chi continuando come se niente fosse perché senza il tampone molecolare non v’è certezza di positività. E intanto il virus correva.

Qualche giorno fa, su questo giornale, sollevammo la questione di quanto assurdo fosse vietare ai laboratori privati di eseguire tamponi molecolari, malgrado persino una pronunzia del Tar li consentisse. La regione, per bocca del suo Assessore alla Sanità ci rispose nell’ordine a) che sbagliavamo, b) che, anzi, la regione si era invece mossa e stava facendo le verifiche tecnico-scientifiche per abilitare i laboratori privati. Perché, ci disse l’Assessore, era dovere del soggetto pubblico accertare i “requisiti di qualità” nell’esecuzione dei tamponi. Con la conseguenza che i laboratori che lo avessero voluto avrebbero dovuto sottoporsi – per volontà regionale – a un rigoroso screening realizzato dall’Istituto nazionale malattie infettive Lazzaro Spallanzani (che ben altre incombenze doveva già sopportare) onde verificarne l’idoneità tecnico-scientifica (malgrado si trattasse di strutture private già accreditate).

Un “esame di specializzazione” insomma per questa pratica diagnostica, che in altre regioni e in altri paesi compie normalmente qualsiasi laboratorio privato. Ma nel Lazio no. La qualità prima di tutto. D’altronde, come avrebbe potuto lo Stato (o la Regione) badante sottrarsi a questo dovere etico, prima che politico, di fare i dovuti accertamenti.  Così solo 5 laboratori superarono l’esame, perché gli altri 284 o non ci hanno provato nemmeno o non raggiungevano i requisiti (molti dei quali evidentemente dissuasivi) richiesti dalla regione stessa.  Ma quattro giorni fa è successo il miracolo. Con una semplice comunicazione regionale “in ragione dell’esigenza di garantire lo snellimento delle procedure di conferma della positività al Sars-Cov-2” tutti, indistintamente, i 284 laboratori che eseguono tamponi antigienici sono stati abilitati a effettuare anche quelli molecolari”. Così, con un pezzo di carta. In un colpo solo. Ma lo scrutinio tecnico? Il fondamentale esame di specializzazione? Le trafile burocratiche? Tutto svanito. Un miracolo.

Ci sarebbe da rallegrarsi se questo non fosse l’ennesimo episodio di cui indignarsi. Esempio paradigmatico di accanimento burocratico, di ostruzionismo amministrativo, di abuso del potere pubblico in danno (altro che tutela) della salute pubblica, di paternalismo da stato etico.
Per settimane, praticamente per tutta la seconda ondata, i cittadini del Lazio (la regione della Capitale d’Italia) sono stati privati della possibilità di avere maggiori opportunità di diagnosi (potenzialmente fino a 284 opportunità in più). Le aziende sono state private della possibilità di offrire un servizio che avrebbe abbattuto code, ridotto tempi di attesa, consentito un migliore tracciamento, limitatola diffusione del virus, concorso a dare certezza ai cittadini.

Ma si sa, di fronte alle ragioni autoreferenziali della macchina amministrativa, di fronte alle magnifiche sorti e progressive dello Stato etico, di fronte al potere che si compiace di farsi concreto signore del destino di ciascuno, cosa saranno mai gli interessi dei cittadini? Di fronte alla benevolenza illuminata dei governanti, cosa importa se migliaia di persone hanno dovuto aspettare sette giorni anziché uno per sapere se fossero malati? Se hanno dovuto fare file interminabili? Se hanno provato un’inutile angoscia? Se hanno dovuto gestire gli innumerevoli banali, volgari, triviali problemi quotidiani, per organizzare sè e le proprie famiglie in vista di qualsiasi evenienza?

Cosa importa se tutta quella evocazione della sicurezza e dei controlli si è dimostrato essere solo un pretesto per tagliare le gambe a chi fa impresa? La banalità del male non si manifesta solo nelle immani tragedie cui allude Hannah Arendt, ma proprio nella sua capacità di manifestarsi come danno gratuito, non necessario. Perché la radice è appunto l’indifferenza. Un inconsapevole disprezzo delle esigenze elementari delle persone, che è l’altra faccia della benevolenza interessata.