L'intervista al manifesto del 1988
L’intervista a Leonardo Sciascia: “Ogni volta che avanzo una critica mi chiamano terrorista o mafioso”
Questa intervista a Leonardo Sciascia (che riproponiamo qui di seguito preceduta anche dalla titolazione originaria) è stata pubblicata sul quotidiano Il Manifesto l’8 novembre 1988, un anno prima della morte dello scrittore, ma anche un anno dopo la sua uscita sul Corriere della sera sui ”professionisti dell’antimafia”. Un anno di polemiche e insulti nei confronti di chi trenta anni prima aveva mostrato al mondo l’esistenza della mafia contro le omertà, le reticenze, i silenzi, persino i pudori della gran parte del mondo politico, istituzionale e culturale. Sciascia fu il primo a rompere quel silenzio complice, pure, quando si permise di criticare certi metodi e certe carriere che si stavano sviluppando nel ventre dell’”antimafia”, fu trattato come un terrorista e un mafioso proprio dagli uomini di quella sinistra cui era sempre appartenuto.
In questa intervista, che ricordo di aver condotto, in seguito a un incontro casuale a Palermo, con una certa timidezza e molto tremore nelle mani che stringevano il taccuino, Sciascia mostra di non essersi lasciato disorientare dalle polemiche sul suo intervento sul Corriere. Tiene fermo il punto, con concetti che non si possono dimenticare, anche perché purtroppo nell’amministrazione della giustizia in questi anni, nonostante l’entrata in vigore nel 1989 del processo accusatorio, non è cambiato niente. La critica al maxiprocesso, ai giudici “lottatori”, ai provvedimenti emergenziali (ieri l’Alto commissario per la lotta alla mafia, oggi la Direzione Investigativa Antimafia), alle leggi speciali. Il diritto alla critica, soprattutto nei confronti del politically correct giudiziario, senza essere di volta in volta considerato amico dei terroristi, dei corrotti o dei mafiosi.
Cose di ieri, cose di oggi. Quanto ci manchi, Leonardo Sciascia! Buon compleanno.
«COLPA DEGLI ARANCI»
Leonardo Sciascia parla di mafia, giudici e maxi processi
«Finché gli aranci saranno coltivati per essere distrutti, in Sicilia ci sarà la mafia». Leonardo Sciascia parla un po’ schivo, stringendo le mani sul suo bastone da passeggio. Racconta la sua regione, quello che era, quello che è diventato il potere mafioso, le sue contiguità politiche, i suoi interessi economici e finanziari. Se il suo sapere gli consente di dire «è difficile sapere oggi che cosa sia la mafia», la sua conoscenza non dimentica.
Palermo. Il frastuono è grande, l’irresponsabilità dei politici anche. Ogni parola in Sicilia diventa subito polemica rovente. Quando il presidente della Cassazione Corrado Carnevale ha dichiarato che i fenomeni criminosi non sono più sintetizzabili nel termine “mafia”, si sono levati squilli di tromba di ogni tipo.
Che cosa ne pensa dunque Leonardo Sciascia?
Trent’anni fa sapevo esattamente che cosa fosse la mafia. Era una mafia rurale, all’interno della quale il capomafia era segnato a dito in ogni paese della Sicilia. Poi a un certo punto questo personaggio è scomparso, e oggi non è più visibile, perché la mafia si è trasformata, perché oggi non gode più di quella considerazione, di quella reputazione di giudice di pace di cui fruiva un tempo. Che era naturalmente, cosa di facciata. La mafia è sempre stata delinquenza associata, ma un tempo manteneva quella facciata di mediazione pacifica, per cui metteva d’accordo la gente che litigava, interveniva nelle compravendite.
Oggi è diverso, in molti – politici, magistrati, sociologi – ritengono di sapere
Da un certo punto in poi anche chi vive in Sicilia, anche in zone di mafia endemica, ne sa quanto un qualunque lettore di giornali. I quali giornali ne sanno ancora meno di quelli che stanno lì. Quindi è tutto un circuito di non sapere. Quello che possiamo vedere è che ci sono oggi dei fenomeni criminali vistosi, caratterizzati da una specie di eversione. Cioè la mafia ha mutuato qualcosa dei movimenti eversivi, terroristici, nei metodi ma anche negli obiettivi. È diventata anche un fenomeno anti-stato, forse perché si è sentita in parte abbandonata dai politici perché i politici si sono a un certo punto defilati. Non possiamo dire se completamente, del resto neanche nelle sentenze processuali si spiega nulla su questo punto. Si parla solo di contiguità tra mafia e politica. Se ancora perduri questa contiguità o se i politici si siano ritratti impauriti, questo non lo possiamo dire con certezza.
Quelli che oggi paiono saperne di più sono i magistrati. Perché hanno fonti interne, i pentiti. Ma le maxi-inchieste e i maxi-processi sono davvero strumenti di conoscenza del fenomeno mafia?
Tutto quello che i magistrati hanno fatto si basa esclusivamente sulla parola dei pentiti, cioè di persone da prendere con le molle. Mi pare poco attendibile chi cerca nei racconti dei pentiti prove oggettive. Io invece credo che nei municipi delle zone di mafia ci siano tanti documenti per provare quella che i giudici chiamano contiguità. Credo che negli archivi degli uffici comunali, per quel che attiene ad esempio i lavori pubblici, si trovino i documenti che provano queste contiguità. Ed è lì che secondo me bisogna cercare. Finché resteranno aperti i rubinetti delle erogazioni pubbliche incontrollate ci sarà mafia. O comunque forme di delinquenza organizzata.
Si torna all’interrogativo iniziale: questo fenomeno di criminalità diffusa, ancora fortemente intrecciato con poteri politici locali e nazionali, si può chiamare “mafia“ nell’accezione più tradizionale del termine?
Nel 1956 ho conosciuto un ufficiale dei carabinieri che è morto in questi giorni a Torino (era ormai un generale in pensione) e che non solo era il primo funzionario dello Stato veramente antifascista che avessi mai visto, ma che soprattutto aveva saputo trarre dalla sua radice di antifascismo una profonda intelligente avversione per la mafia. A un certo punto aveva scritto un libro che fu pubblicato proprio nel 1956. Dopodiché quell’ufficiale fu trasferito. Credo che oggi una cosa simile non succederebbe più. Questo vuol dire che in qualche modo la mafia è uscita dallo Stato. Che c’è quantomeno una volontà politica di combatterla. Però non so questa volontà quale intelligenza saprà trovare per ottenere i risultati.
Gli strumenti per ora sono, più che politici, “collaterali“ (delega alla magistratura) o “speciali“ (nomina dell’alto commissario)…
Sì, hanno trovato solo metodi speciali. Allora il punto è: se si vogliono sospendere alcune garanzie costituzionali è meglio che lo si dica. Il fatto stesso che tante sentenze della magistratura vengano annullate significa che non c’è stato, nel giudicare, il rispetto per la forma, e nel diritto la forma è sostanza. È meglio allora essere chiari e dire: queste forme del diritto, queste garanzie costituzionali sono momentaneamente sospese. Se invece si deve scavare sotto i principi, in deroga a questi, allora il danno è incalcolabile per tutto il paese.
Sono in corso da tempo polemiche sui maxi-processi, sul giudice “lottatore“, su accuse di “carriere costruite sull’antimafia“.
Penso che i maxi-processi non siano proprio un’attuazione del diritto. Dicendolo in termini spiccioli: come fa un giudice, come fa un giurato a ricordare 600 facce, 600 casi, quando è in camera di consiglio? Quanto alle polemiche sul ruolo del magistrato, io penso che Corrado Carnevale abbia ragione, il giudice deve limitarsi a giudicare. Quella di combattere la mafia è un’astrazione, perché se il magistrato nel rispetto delle garanzie, fa un buon lavoro, ottiene un risultato, ecco che questo alla fine è lotta alla mafia. Quella di combattere i fenomeni è più sociologia che diritto.
Vorrei dire un’ultima cosa sul nuovo codice di procedura penale. Anche se mi va bene che al processo inquisitoriale si sostituisca il sistema accusatorio, mi allarma il fatto che con il nuovo sistema sarà indispensabile più che mai il ricorso ad avvocati buoni. E allora: questi avvocati buoni la mafia può pagarseli, la delinquenza associata anche, il povero diavolo non credo.
Sono finite le polemiche?
Io non polemizzo con nessuno, per principio. Dico la mia, ma cosa ci posso fare se ogni volta che avanzo una critica vengo sospettato di essere favorevole ai terroristi piuttosto che ai mafiosi?
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