1. Cent’anni fa, oggi, nasceva Leonardo Sciascia. Pare ancora di vederlo: «Piccolo, fragile, tenebroso, la fronte ampia e il viso pallido perennemente avvolti dal fumo delle sigarette, Sciascia parlava poco, preferiva soprattutto ascoltare. Aveva il passo incerto e portava il bastone, a segnalare il vezzo di un precoce, compiaciuto, invecchiamento. Quando Nisticò [il direttore de L’Ora di Palermo], fulminato da una sua osservazione, gli chiedeva un pezzo, non rispondeva subito: ci pensava e si presentava la mattina dopo, tirando fuori dalla tasca della giacca due fogli piegati in quattro. “Spero possa andare bene”», diceva (Marcello Sorgi, Le sconfitte non contano, Rizzoli, 2013).
Impossibile ripercorrerne le opere e i giorni nello spazio di un articolo di giornale. Meglio optare per una chiave narrativa: Gioacchino Criaco ne ha parlato muovendo dalla sua sicilianità (Il Riformista, 5 gennaio), Valter Vecellio attraverso coinvolgenti testimonianze (Il Riformista, 6 e 7 gennaio); qui interessa la relazione profonda, quasi fusionale, tra il tema della legalità e la scrittura sciasciana.

2. Parto dalla sua cifra stilistica: la parola di Sciascia è cristallina, setacciata da inutili eccessi, cesellata fino al dettaglio, d’ispirazione volterriana: «Questo modello di scrittore, chiaro, svelto, conciso, intelligente, sintetico, ironico: ecco tutto ciò che per me rappresenta la chiave della scrittura e del vero mestiere» (così nell’intervista di Marcelle Padovani, La Sicilia come metafora, Mondadori, 1979).
Le sue pagine hanno una struttura sintattica modernissima a vocazione cinematografica, trasposte spesso in celluloide: Porte Aperte di Gianni Amelio, Il giorno della civetta di Damiano Damiani, A ciascuno il suo e Todo modo di Elio Petri, Cadaveri eccellenti di Francesco Rosi (tratto da Il contesto), Il Consiglio d’Egitto e Una storia semplice per la regia di Emidio Greco.
A riassumere la scrittura di Sciascia basta una parola: semplicità, intesa come complessità risolta. Non a caso, «Le cose sono sempre semplici» ripete il protagonista di Candido. Non a caso, Una storia semplice è il titolo del suo ultimo romanzo.

3. Non è solo un fatto stilistico: in Sciascia, forma e sostanza sono consorti. Lo rivela un inciso de La strega e il capitano, dove rende omaggio al Manzoni della Colonna infame, «alla quale mai ci stancheremo di rimandare il lettore, e per tante ragioni: che sono poi quelle per cui scriviamo e per come scriviamo». Questo è il punto: per Sciascia conta non solo cosa dici, ma come lo dici. Nominare appropriatamente le cose, infatti, significa generarle, rendendole intellegibili, in una rinnovata mimesi laica della biblica Genesi. Sta qui, in questa capacità creativa, la responsabilità etica dello scrivere.
Dovrebbe valere a maggior ragione per il linguaggio giuridico, massimamente prescrittivo. Eppure non accade spesso. In tema di delitti e castighi, c’è però una norma costituzionale che sembra scritta da Sciascia: è l’art. 27, 4° comma, riformulato nel 2007, a tenore del quale «non è ammessa la pena di morte». Riforma epocale, come ho già argomentato su queste pagine (Il Riformista, 2 gennaio), che fa finalmente dell’Italia un Paese incondizionatamente abolizionista. Sciascia redivivo l’avrebbe certamente apprezzata, convinto com’era che «la pena di morte non ha niente a che fare con la legge: è un consacrarsi al delitto, un consacrare il delitto» (Il cavaliere e la morte). Così come per il giudice a latere protagonista di Porte aperte, «è un principio di tale forza, quello contro la pena di morte, che si può essere certi di essere nel giusto anche se si resta soli a sostenerlo».

4. Diceva di sé Leonardo Sciascia: «Io non ho il senso dell’opportunità». Un’autentica anomalia in un Paese dov’è invece sviluppatissimo, fino all’opportunismo. La sua ereticità (com’è accaduto anche a Pier Paolo Pasolini) ne ha fatto uno degli intellettuali più divisivi in vita, salvo poi – post mortem – essere trasversalmente e universalmente apprezzato. Eppure, ripensando allo Sciascia polemista, spesso la ragione stava dalla sua parte.
Vale per la tesi – esposta ne Il giorno della civetta, pubblicato nel 1961 – secondo cui per scoprire le connivenze mafiose è necessario per gli inquirenti seguire l’odore dei soldi, indagando il tenore di vita dei sospetti: «Sarebbe meglio si mettessero ad annusare intorno alle ville, le automobili fuori serie, le mogli, le amanti di certi funzionari: e confrontare quei segni di ricchezza agli stipendi, e tirarne il giusto senso».
Vale anche per le principali ipotesi de L’affaire Moro: la tesi dell’autenticità delle lettere di Aldo Moro, dichiarate “false” con tombale sicurezza anche dai suoi amici. Quanto alle ipotesi investigative formulate da Sciascia, l’incredibile ritrovamento del memoriale di Moro avvenuto nel 1990 farà scrivere ad Adriano Sofri (L’ombra di Moro, Sellerio, 1991) che «naturalmente, le nuove puntate superano le immaginazioni più romanzesche, e davanti al pannello scoperchiato di via Monte Nevoso sembra di vedere, appena più appoggiato a un suo bel bastone dal pomo d’argento, Leonardo Sciascia che non aveva resistito, neanche da lì, alla deliziata tentazione di un sopralluogo». Infine, pensando agli effetti di sistema prodotti dall’assassinio dello statista democristiano, come non definire profetica la citazione di Elias Canetti posta in esergo al libro: «La frase più mostruosa di tutte: qualcuno è morto “al momento giusto”».
5. Dalla parte del torto non era Sciascia neppure quando firmò per il Corriere della Sera, il 10 gennaio 1987, l’articolo su I professionisti dell’antimafia. Esecrato come un attacco al sindaco di Palermo Orlando e al procuratore di Marsala Borsellino, era invece una preveggente denuncia di quel moralismo giustizialista che, oggi, è all’ordine del giorno: gli indignati di professione che fanno della lotta in nome delle vittime la cifra della propria carriera; l’unanimismo antimafioso – costi costituzionalmente quel che costi – che espelle il dissenso ed esenta da ogni critica razionale; l’affermazione – scriveva Sciascia – di una «cultura delle manette» alimentata dalla «cultura dell’indiscrezione» che salda insieme uffici giudiziari e testate giornalistiche.
Eppure, nella polemica che ne seguì, Sciascia fu appellato come un «quaquaraquà», dispregiativo che il capo cosca don Mariano usa nel dialogo con il capitano Bellodi sulle cinque categorie in cui classificare l’umanità (Il giorno della civetta). Detto altrimenti, gli alfieri della retorica dell’antimafia adoperarono un appellativo mafioso contro chi antimafioso lo era da sempre, e ben prima di loro. Ora come allora, è la regola nella meschina polemica politico-giudiziaria italiana, dove non conta l’argomentazione ma solo la delegittimazione dell’interlocutore.

6. Non è vero, infatti, che il fine giustifica i mezzi, neppure nella lotta alla criminalità organizzata. Lo aveva ben chiaro Sciascia, che della legalità faceva una religione laica, contrapponendola al «sentire mafioso: cioè di un modo di realizzare la giustizia, di amministrarla, al di fuori delle leggi e degli organi dello Stato» (Il giorno della civetta). Ben sapendo – come il capitano Bellodi – che è inutile, oltre che pericoloso, vagheggiare una sospensione di diritti costituzionali: «Sorse, improvvisa, la collera. Il capitano sentì l’angustia in cui la legge lo costringeva a muoversi; come i suoi sottufficiali vagheggiò un eccezionale potere, una eccezionale libertà di azione. Una eccezionale sospensione delle garanzie costituzionali, in Sicilia e per qualche mese: e il male sarebbe stato estirpato per sempre. Ma gli vennero alla memoria le repressioni di Mori, il fascismo: e ritrovò la misura delle proprie idee, dei propri sentimenti».
Per difenderci dal «diritto di inquisire» (Candido) abbiamo solo la Costituzione come freno al potere. Quando, invece, l’eccezione si fa regola in nome dell’ermergenza, e l’emergenza si fa quotidiana, è allora che i mezzi straordinari prefigurano fini dissimulati. È allora – come suggerisce il sostituto Vice, protagonista de Il cavaliere e la morte – che «si può sospettare che esista una segreta carta costituzionale che al primo articolo reciti: la sicurezza del potere si fonda sull’insicurezza dei cittadini».

7. La presa di distanza dalla sinistra storica e l’impegno parlamentare tra le fila dei Radicali disorientò molti dei suoi amici, ai quali Sciascia rispose lapidario: «Contraddissi e mi contraddissi». Invero, autenticamente radicali erano molte delle sue convinzioni: l’immutabilità dell’eterno fascismo italiano, l’angoscia provocata dalla macchina giudiziaria se guidata fuori dalle regole dello Stato di diritto, l’avversione al potere che «è sempre altrove», il culto per la memoria collettiva.
C’è una bella fotografia, scattata nel momento in cui Marco Pannella dice a Sciascia, nella sua casa palermitana, che i Radicali non hanno più il colpo in canna per sparare sulla dinamite che hanno accumulato: la sua candidatura può essere quel colpo. Sciascia si prende qualche minuto per decidere, fuma una sigaretta in silenzio, poi risponde parafrasando il Vangelo: «Hai bussato perché sapevi che era già aperto» (Valter Vecellio, Leonardo Sciascia. La politica, il coraggio della solitudine, Ponte Sisto, 2019). Capolista alla Camera ed al Parlamento europeo nelle elezioni del 1979, verrà eletto ad entrambi (anche con il mio voto), optando poi per Montecitorio.
Sarà un’esperienza feconda: Sciascia, infatti, ha lasciato tracce profonde negli atti parlamentari (ben selezionati da Lanfranco Palazzolo, Leonardo Sciascia deputato radicale, 1979-1983, Kaos Edizioni, 2004). Impressiona la cifra di tale materiale. Come ricorda Marco Boato, all’epoca deputato radicale come Sciascia: «Nell’Aula della Camera parlò pochissimo, e sempre con interventi di pochi minuti, che leggeva con voce lenta e roca, dopo averli preparati con scrittura minuta e minuziosa su pochi foglietti. Lui sembrava voler passare alla storia come il recordman della brevità, dell’icasticità di parole brevi e quasi scolpite sulla pietra. Appena aveva terminato di parlare, lo pregavo di lasciarmi quei pochi foglietti appena letti nel silenzio più assoluto, caso rarissimo nella vita quotidiana della Camera» (Andrea Camilleri, Un onorevole siciliano, Bompiani, 2009). Finivano pubblicati, quei foglietti, come editoriali di Lotta continua.
8.Da tutti questi punti di vista, il confronto con il presente è davvero mortificante e demoralizzante. Leonardo Sciascia ha avuto una centralità nello spazio pubblico oggi impossibile, semplicemente perché intellettuali di pari levatura non esistono più. Anche in tale assenza risiede una delle cause del declino del Paese, perché – come ebbe a dire Marco Pannella, congedandosi dalla vita – «quando te ne vai, bisogna vedere quanti sono coloro che fanno della tua mancanza una presenza», per poi proseguire.