Il ricordo
L’irruzione di Bettino Craxi e il suo disegno strategico: ricercò il potere come un corsaro
Sono trascorsi 25 anni dalla morte di Bettino Craxi avvenuta in solitudine e lontano dall’Italia. Da anni è in corso una riflessione sull’opera del primo socialista presidente del Consiglio. Un lavoro che si propone una valutazione scevra da pregiudizi della vicenda politica di Craxi protagonista di un intero periodo della storia nazionale: dalla seconda metà degli anni Settanta alla crisi del sistema dei partiti che aveva retto per oltre un quarantennio l’Italia.
Bettino Craxi irruppe “come un ciclone nelle acque stagnanti della politica italiana”. Ebbe l’intuito e la prontezza di un grande tattico ma perseguì un disegno strategico: recuperare al socialismo italiano la fisionomia originaria e autonoma che aveva smarrito nella morsa della doppia subalternità al Pci e alla Dc. Fece del confronto sul profilo ideale e culturale della sinistra il terreno su cui condurre la sua battaglia. Fondamentale fu la rivista “Mondoperaio” diretta da Federico Coen. Polemiche come quella avviata da Norberto Bobbio sul marxismo e lo Stato o le successive su Gramsci e l’egemonia, sul togliattismo e la democrazia, lasciarono un segno nella storia della sinistra. La risposta che la cultura comunista oppose alla sfida fu inadeguata, si arroccò nella difesa di schemi tradizionali.
In realtà, osserverà alcuni anni dopo Biagio de Giovanni, “l’offensiva culturale” di “Mondoperaio” fu per me uno spartiacque. Avvertii che il Pci subiva una sconfitta culturale e teorica, avevamo poche armi tra le mani per rispondere…”. Eravamo tutti, nel Pci di quegli anni, dentro un orizzonte teorico e pratico di cui non riuscivamo ad avvertire la fragilità, la forza di erosione che lo stava frantumando, l’urgenza quindi di un nuovo pensiero. Craxi ebbe una concezione forte del potere e lo ricercò facendosi strada come un corsaro tra le insidie della politica italiana. I dirigenti del Pci prima, poi del Pds non vollero intendere che il senso più profondo della politica socialista dalla fine degli anni Settanta consisteva nello sforzo di recuperare al Psi un proprio profilo autonomo. Un tragico errore.
Dopo l’89 Craxi commise un errore politico di fondo. Non riuscì a sganciarsi da quella che era diventata “una alleanza opportunistica e priva di avvenire” con la Dc. Concluso il conflitto tra socialismo dispotico e socialdemocrazia con la vittoria di quest’ultima, era giunto il momento di aprire la situazione politica italiana alla prospettiva dell’alternativa di governo. Le ambiguità e le contraddizioni del Pds non avrebbero dovuto impedire a Craxi di porre il tema all’ordine del giorno. Era quanto gli aveva suggerito con parole accorate in una lettera alla fine del 1990 Norberto Bobbio: “Con l’autorità che ti viene dall’essere stato per quattro anni presidente del Consiglio e ora dal prestigioso incarico internazionale alle Nazioni Unite, puoi avviare un fecondo dialogo a sinistra per cercare di aiutare il corso della storia italiana e interrompere il sempre più insopportabile dominio democristiano. Solo tu puoi farlo.”
Trovo ancora sorprendente che un politico di razza quale fu Craxi non si sia reso conto che il sistema politico italiano fosse ormai giunto alla fine. Craxi non percepì la gravità della crisi in cui stava precipitando la Repubblica? Spia di questo fu l’invito agli italiani che chiedevano un segno di cambiamento a disertare le urne per il referendum che aboliva la preferenza multipla. Il partito che aveva lanciato l’idea della grande riforma finì, più di altri, con l’identificarsi in un sistema politico ormai non più in grado di reggere. Si precluse così la possibilità di intercettare l’onda di dissenso che proprio contro quel sistema andava montando.
Quando il 3 luglio del 1992, prendendo la parola nell’aula di Montecitorio, Bettino Craxi descrisse le degenerazioni del sistema di finanziamento della politica chiedendo che tutti se ne assumessero le responsabilità era troppo tardi. Il corrompimento della vita pubblica aveva minato alle radici la credibilità del sistema politico. Gli anni Ottanta, scrive Galli della Loggia, “furono quelli in cui esplose la grande corruzione italiana, in cui la morale pubblica andò in pezzi. Ma chiunque si sia occupato un po’ di queste cose sa che non ne porta alcuna responsabilità predominante la gestione craxiana del partito o del governo. Il craxismo fu un comprimario, un comprimario importante, ma sempre in numerosa e qualificata compagnia”.
E tuttavia ha ragione Luciano Cafagna quando ricorda che “la storia non procede mai per vie di assoluto lindore, ma qui forse, l’inquinamento diffuso passò il segno di un ragionevole limite del tollerabile”. A quel punto, la stessa possibilità di realizzare la “grande riforma” si collocava ormai al di fuori dei partiti. Quella referendaria appariva l’unica proposta in grado di cambiare le cose. Forse, nella “dignità dolorosa degli anni di Hammamet”, intorno a questo drammatico paradosso della vicenda politica socialista si sarà arrovellato Bettino Craxi.
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