L’onorevole Margherita Boniver, a lungo parlamentare e al governo, prima con il PSI e poi con Forza Italia, oggi è presidente della Fondazione Craxi.

Chi era per lei Bettino Craxi?
«Un personaggio assolutamente fuori dell’ordinario. Straordinario. Mescolava capacità politica a una umanità profonda. Un aspetto che è sempre stato nascosto o addirittura negato: di Craxi si diceva, oltre che ladro, arrogante. Erano due rovesciamenti della realtà. Era profondamente democratico, amato da tutti coloro che lo conoscevano bene. La riprova è che sotto la sua segreteria non se ne è andato mai nessuno, da quel Psi che aveva sempre avuto la scissione facile, nella sua storia».

E cosa è stato per l’Italia, per la politica italiana?
«Una grande novità. All’epoca della sua segreteria, era il leader di partito più giovane di sempre, non aveva ancora quarant’anni. Segnò subito una svolta: pieno di idee, di progetti, estremamente moderno. Cresciuto nella Milano frizzante di quegli anni, era agli occhi dei politici romani una grande novità».

Un grande leader arrivato al vertice del Psi un po’ per caso, certamente sottovalutato…
«Sì, la sua candidatura spuntò come quella insperata dei giovani. Poi, certi di potersene servire, lo votarono anche i capi delle vecchie correnti, che lo consideravano un fenomeno passeggero. Invece, appena eletto segretario, si capì di che tempra fosse fatto quel giovane milanese».

Che Presidente del Consiglio fu?
«Il primo Presidente del consiglio socialista della prima Repubblica, dove fino ad allora si erano alternati solo democristiani. La sua premiership fu importantissima per le mille innovazioni che seppe portare, per aver dato stabilità dal 1983 al 1987, per il referendum sulla Scala mobile, per la postura che seppe tenere di fronte agli Americani, a Sigonella…»

Chi e cosa lo ha osteggiato, negli anni Ottanta?
«Lo guardavano con ostilità in tanti. I comunisti del santificato Berlinguer avevano messo tutte le loro energie per osteggiare i socialisti. Avevano portato in piazza milioni di persone, con il pretesto di protestare contro i missili della Nato: tutti i cortei però anziché gridare contro le armi se la prendevano con lui: Craxi boia, fascista, riformista».

Riformista? Non certo un insulto, una qualità.
«Adesso, forse. Per il Pci negli anni Ottanta dire “riformista” era un grande insulto. E poi c’era la guerra che gli faceva De Mita, la sinistra Dc che vedeva in Craxi un usurpatore, quasi un abusivo a Palazzo Chigi».

Dove non riuscì con il voto, la sinistra provò con le manette. Il “cinghialone”, come lo definì Antonio Di Pietro, rappresentava appunto il trofeo da esporre al termine delle fucilate…
«Qui entriamo in una fase sanguinolenta. Quel biennio del terrore 1992-’93 è stato il periodo della ghigliottina italiana. Cito il bellissimo libro di Mattia Feltri in cui racconta gli anni in cui vennero sottoposti a processi sommari, politicamente ispirati, tutta la leadership socialista, metà della Dc, l’intero Pli, Pri e Psdi. Una guerra scatenata per motivi politici ovvi: portare al governo la sinistra del post-Pci in nome di una presunta superiorità morale. Che invece veniva finanziato in modo principesco dal Kgb e dall’Urss, altroché moralmente superiore. Questa della persecuzione giudiziaria è stata solo una parte del vero e proprio assassinio di Bettino Craxi».

Lo hanno ucciso, dice lei. Addirittura. Chi e perché?
«In inglese di parla di character assassination. È stato descritto per anni come un corrotto e un brigante, sottoposto a decine di avvisi di garanzia, grazie alla staliana teoria del “non poteva non sapere”, partorita dal Pool di Mani Pulite. Quando si alzò alla Camera dei deputati per denunciare l’irregolarità dei finanziamenti che ricevevano tutti i partiti politici, i giudici utilizzarono quel suo discorso come fosse stato un reato anch’esso. Siamo passati così dallo stato di diritto a quello etico, dove le patenti di moralità erano tutte aleatorie e puntavano a qualche capro espiatorio, risparmiando altri».

L’eliminazione fisica del nemico che non si può battere politicamente è il contrario dell’essere democratici.
«Assieme all’assassinio di Giacomo Matteotti e a quello di Aldo Moro, la persecuzione che ha portato Craxi prima in esilio e poi alla morte per mancanza di cure, è lo spartiacque drammatico di un’Italia che forse solo oggi, a 25 anni dalla scomparsa di Craxi, inizia a fare qualche ragionamento».

Craxi avrebbe potuto salvarsi, avrebbe potuto chiedere asilo in Francia, essere operato in condizioni migliori, rientrare in Italia con un salvacondotto umanitario?
«No, gli era stato offerto di tornare in Italia in manette. Questo è il motivo per cui nel suo ultimo documento ha parlato dell’assassinio delle sue idee: “La cosa che più mi ripugnerebbe sarebbe quella di essere riabilitato da coloro che mi uccideranno”. Un appunto che hanno trovato sul comodino accanto al suo letto, poco prima di morire».

Quella carica innovativa, vitalistica, riformatrice oggi da chi viene impersonata? Craxi rimane insostituibile?
«Rimane un elemento unico, un protagonista della storia dell’Europa che stava cambiando, negli anni del crollo del comunismo. La storia bussava alle porte e Craxi fu l’uomo giusto per incarnare la risposta riformista al bisogno di politica nuova: telefonava a Salvador Allende, riceveva Dubček e aiutava Lech Wałęsa, era diventato il capofila dei leader che ambivano alla conquista della libertà, nel mondo. Come si può ben vedere, oggi non gli somiglia nessuno».

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.