40 anni. Da che Bettino Craxi varò il suo primo Governo, primo governo a guida socialista e 42esimo della Repubblica, che allora aveva 37 anni. Che fosse una novità, lo si era capito da tempo, e lo si sarebbe capito anche guardando la durata del Craxi I: quasi tre anni, record per la prima repubblica, e se non sbaglio sul podio sommando la prima alla seconda repubblica.

Tre anni passati tutti a cercare di riformare l’Italia, secondo una logica votata allo sviluppo, all’ambizione politica di issare stabilmente l’Italia in alto, là dove dovrebbe stare una nazione che non si accontenti di piccoli obiettivi ma che voglia essere pienamente protagonista, e far fruttare le sue enormi potenzialità. Tre anni di governo dedicati a inseguire, leva fiscale in mano e borse col vento in poppa, un progresso declinato secondo la massima fordiana che il progresso è tale solo se lo è per tutti.

Con una maggioranza larga anche se composita (il Craxi I viene sorretto dal pentapartito Dc-Psi-Pli-Pri-Psdi) Craxi produce un attivismo sul proscenio internazionale, e una lotta all’inflazione domestica consumata attraverso la crescita che avrebbe portato l’Italia al quinto posto nella graduatoria dei paesi più industrializzati del mondo, avrebbe tagliato con un decreto (plastica dimostrazione di decisionismo politico, altra inclinazione nuova del suo personaggio) la scala mobile, che dell’inflazione sembrava ormai essere diventata causa, più che un possibile rimedio.

Avrebbe introdotto il redditometro e l’obbligo del registratore di cassa per migliorare l’efficienza redistributiva tramite la lotta all’evasione, riformato il Concordato con la Santa Sede del 29, e -se permettete- avrebbe aperto di fatto, con un decreto a sua difesa e contro alcune decisioni pretorie, la via della concorrenza al pioniere dell’informazione privata contro il monopolio del servizio pubblico radiotelevisivo: Silvio Berlusconi.

Craxi, che io probabilmente avrei votato, se avessi fatto in tempo, proprio per la visione di lungo periodo di cui era portatore ambizioso, pensava infine, e da prima di diventare premier, a come riformare una nazione, l’Italia, con una tendenza pronunciata al cambiamento là dove la borghesia produttiva ha respiro, e con la tendenza esattamente opposta nelle aree rurali, più conservatrici fino ad essere reazionarie,
Più volte aveva denunciato il deficit decisionale del sistema istituzionale italiano, l’eccesso del potere di veto che lo attraversava e il suo eccesso legislativo (“In Italia è necessaria una legge anche per regolare l’eviscerazione dei polli”), e avanzato l’idea di una riforma che portasse all’elezione diretta del Capo dello Stato.

Queste riforme di fatto non arrivarono a dama, ma divennero patrimonio politico di tutti nei decenni successivi, e se oggi la Presidenza del Consiglio ha una sua legge di funzionamento minimamente moderna è solo grazie ai presupposti che Craxi mise in piedi e che diedero alla luce poi, nell’88, della legge cardine di riforma dell’amministrazione pubblica: la celeberrima 400. 40 anni dall’affermazione di un ambizioso riformista, e non sentirli.