Il ritratto
La lezione di Craxi è ancora viva, l’ultima volta che lo vidi era sfinito: il riformista non è un traditore
Contro l’ex segretario del Psi si scatenò una guerra furibonda, lacerando la sinistra e spianando la strada al giustizialismo. Il riformismo è la vera risposta al populismo
Nell’ignorante dibattito pubblico italiano la parola riformista è diventata sinonimo di traditore e venduto, come affermava quella sciagurata teoria stalinista del socialfascismo che come un fiume carsico riemerge nella sinistra italiana: “Con Craxi appare in Italia – in questa Italia fine anni ‘70 che sta nel pieno di una crisi massima – un personaggio quale ancora non si era visto in più di 30 anni di vita democratica, un bandito politico di alto livello”.
Queste parole sono state scritte da Tonino Tatò (l’uomo-ombra di Enrico Berlinguer) nel 1978, ben prima cioè che Bettino Craxi fosse costretto all’esilio da una devastante offensiva mediatico giudiziaria. Sono la dimostrazione dell’ostilità dei comunisti nei confronti della sfida riformista lanciata dal nuovo leader del Psi che aveva sostituito Francesco De Martino alla guida del partito condotto al suo minimo storico da una politica di subalternità ai comunisti.
Bettino Craxi, primo socialista a diventare presidente del consiglio, è stato invece – con le sue durezze e i suoi errori – il principale leader del riformismo socialista nel Dopoguerra. So che ha subìto due condanne definitive per finanziamenti illeciti alla politica. In un’intervista concessa a Giuliano Ferrara per il Foglio nel 1996, l’ex-procuratore aggiunto di Milano, Gerardo D’Ambrosio, ammise però che Craxi non si arricchì personalmente: “…L’ unica certezza, sul piano giudiziario, che si può esprimere nei confronti di Craxi è quella che deriva dalla sua stessa confessione, resa nell’aula della Camera, quando dichiarò di essere a conoscenza del sistema di finanziamenti illeciti che governava il rapporto tra politica e imprese”.
Chi era dunque, Bettino Craxi? “A dieci anni ho fracassato i vetri della casa del fascio del paesino dove la mia famiglia era sfollata. A quattordici anni ho attaccato manifesti per il fronte popolare. A diciotto mi sono iscritto al partito socialista. A ventidue sono stato eletto consigliere comunale. Seguivo una temperie familiare che era molto intensa. Fui in prima persona nel Movimento Giovanile Socialista. Ne chiedevo l’uscita dalla organizzazione internazionale della gioventù comunista. Finii in minoranza”. In questo racconto della propria formazione politica, scritta nell’esilio forzato e nient’affatto dorato di Hammamet, Craxi riassume i tratti fondamentali della sua biografia politica: la passione per la politica, la democrazia come religione laica.
“Difendo la politica, la sua autonomia, il suo valore, il suo potere. Senza una politica che sia veramente tale, una società perde la sua valvola d’ossigeno. Una società politica, ridotta ad un paravento di facciata, riduce in polvere la democrazia”. Craxi, conquistata la leadership, comincia lanciando la sfida ideologica con la rivalutazione di Proudhon e della tradizione socialista ottocentesca pre-marxista contro l’ortodossia marxista-leninista; poi combatte la linea della fermezza durante il caso Moro, facendosi spazio tra i due colossi Dc e Pci; infine guarda ai ceti emergenti, alla sfida dell’economia immateriale, dalla Moda alla Tv. Certo, tra gli emergenti ci sono anche gli spregiudicati ceti arrembanti che a un certo punto diventeranno quella corte di “nani e ballerini” che suscitò la micidiale ironia di Rino Formica.
Ma l’ambizione, che Claudio Martelli esporrà nel convegno di Rimini, è creare l’alleanza tra il merito e il bisogno, cioè sostenere chi non ce la fa senza penalizzare il dinamismo dei talenti, ovvero lottare contro le diseguaglianze ma senza appiattire tutti su un egualitarismo fuori dal tempo. È un’idea che guarda più al socialismo liberale di Carlo Rosselli e alla teoria della giustizia di John Rawls che al marxismo sia pure filtrato attraverso la socialdemocrazia. È una sfida alla cultura comunista, ma non è nient’affatto una deriva di destra, un cedimento al liberismo, come molti allora affermarono. Era un’altra idea della sinistra, rimasta minoritaria e che trovava un partito, un leader, intellettuali.
Non è sbiadito in me il ricordo del mio ultimo incontro con Craxi, ad Hammamet, nel novembre del 1999, poco prima della morte, dove andai per un’intervista a Telemontecarlo. Le parole, gli sguardi, i gesti, i silenzi. Le lunghe e famose pause che ne denotavano l’eloquio, come sempre fluente e avvolgente, pur se mi sembrò essersi fatto più riflessivo. Mi parve un Craxi più intimo, fragile, non rassegnato, questo no, ma sfinito sì.
“Io sono figlio di una storia”, mi disse con orgoglio. Ha ricordato Emanuele Macaluso, storico dirigente del Pci, uno dei leader della corrente riformista che avrebbe voluto un atteggiamento più aperto verso Craxi: “Berlinguer era preoccupato e spiazzato dalla politica di Craxi, dal suo autonomismo aggressivo, anche perché pensava che con il Psi di De Martino fossero stati raggiunti un rapporto di forze e un’intesa politica tali da mettere all’ordine del giorno, in una prospettiva non lunghissima, una fusione tra i due partiti… Un periodo di forte attenuazione della lucidità politica di Enrico, che vedeva nella presidenza Craxi un pericolo per la democrazia e non una inedita e difficile competizione politica a sinistra”. Tuttavia, non a caso, è stato Matteo Renzi – che non proviene dalla tradizione comunista – a utilizzare le parole più nette: “Craxi è stato un gigante politico”.
Parlare di Craxi oggi significa evidenziare i nodi che allora si aggrovigliarono e resero impossibile ciò che la caduta del comunismo rendeva possibile e necessario, ovvero il superamento della scissione del 1921 e la riunificazione di tutta la sinistra nell’alveo del socialismo democratico per dare uno sbocco politico alla crisi del sistema politico italiano dopo il crollo del Muro di Berlino. E invece contro Craxi ci fu una guerra furibonda e fratricida il cui esito, dopo Tangentopoli, fu la vittoria del populismo mediatico di Berlusconi, la fine dei partiti che avevano fondato la Repubblica, l’egemonia a sinistra di una cultura giustizialista, e un cedimento al populismo del primo Conte che passa. Una guerra che ancora oggi lacera la sinistra e dove i riformisti sono considerati, oggi come allora, traditori e venduti.
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