L’articolo di Tiziana Maiolo del 16 febbraio sui trent’anni di Mani Pulite ha giustamente messo in rilievo il ruolo avuto in quella vicenda dalla Procura di Milano e dagli organi di informazione, che l’hanno affiancata. Vi è stato, peraltro, un altro protagonista, restato sempre dietro le quinte, ma il cui contributo è stato decisivo. Si tratta della Corte di Cassazione. La quale ha legittimato l’ondata di arresti e conseguenti confessioni, che hanno caratterizzato quel periodo.

Ciò avvenne attraverso tre precise direttrici. Innanzitutto, con un sofisma di bassa lega, la Corte affermò che era certamente illegittimo ricorrere al carcere per estorcere delle confessioni, ma che, al tempo stesso, era pienamente giustificato liberare le persone quando avessero confessato, perché la confessione avrebbe segnato il distacco dal contesto corruttivo, in cui avevano operato. Quindi, non sei in carcere per confessare, ma se confessi ti liberiamo. E così avvenne che le carcerazioni duravano fino alla confessione, autentica o costruita che fosse.

Del resto, una volta ottenuta la confessione con chiamata in correità di altre persone, questa diventava prova incontestabile a carico dei nuovi accusati, atteso che non era neppure necessario che quella prova fosse sottoposta al vaglio del controesame. Centinaia di processi si svolsero con i pubblici ministeri che depositarono in udienza i verbali delle confessioni ottenute in carcere, senza che i difensori dei nuovi accusati da quelle confessioni potessero interrogare chi le aveva rilasciate. Ed i processi si sono conclusi, senza la reale possibilità di verificare se quelle chiamate in correità fossero o no rispondenti a verità.

In secondo luogo, il criterio di valutazione dei “gravi indizi di colpevolezza”, richiesto dal codice di procedura penale per ricorrere alla carcerazione preventiva, fu profondamente svilito. I gravi indizi dovevano, difatti, essere visti in una “prospettiva dinamica”. Il che significava che qualsiasi elemento, anche debole ed incompleto, siccome suscettibile di rafforzarsi nello sviluppo delle indagini, era idoneo a legittimare la privazione della libertà personale. In definitiva, un altro sofisma, con il quale si svuotava di contenuto un requisito fondamentale previsto dal codice come condizione indispensabile per l’utilizzo della carcerazione preventiva. Era evidente che, in questo quadro, la chiamata in correità in una confessione legittimava ampiamente la moltiplicazione delle misure cautelari.

L’ultima sottigliezza, infine, riguardò l’effetto di un eventuale accoglimento dei ricorsi in Cassazione. Il buon senso porterebbe a ritenere che un provvedimento di carcerazione impugnato, se annullato dalla Cassazione, avrebbe dovuto implicare la liberazione. Ma la Corte di Cassazione osservò che se, come di regola avviene, alla sua attenzione giungono le impugnative alle decisioni del Tribunale del riesame, l’annullamento con rinvio di tali provvedimenti lascia comunque in piedi l’originaria ordinanza di custodia cautelare emessa dal GIP. Di conseguenza, le persone devono restare in carcere, sino ad un eventuale esito favorevole del giudizio di rinvio.

In poche parole: è vero che il provvedimento che ti mantiene in carcere è viziato, ma ci devi restare lo stesso. La Corte di Cassazione, dunque, ebbe un ruolo fondamentale nel legittimare quel costante abuso dell’utilizzo della carcerazione preventiva, che fu uno dei tratti salienti di Mani Pulite e che, incontestabilmente, ebbe un ruolo decisivo in quella operazione. È “giusto”, nella ricorrenza dei trenta anni, darne atto.