100 anni fa la marcia cha aprì le porte al fascismo
Marcia su Roma, cosa è successo nei giorni precedenti all’evento che aprì le porte al fascismo
Per essere un Paese attraversato da una guerra civile di fatto, con mezzo territorio sotto il controllo di una milizia di partito che si arrogava poteri statuali, minacciato da una insurrezione che veniva citata apertamente dai capi fascisti come concreta eventualità imminente, quel che colpisce nei giornali italiani dell’ottobre 1922 è la scarsa attenzione dedicata alla ventilata “marcia su Roma”.
Sui giornali si parla del prezzo del pane, andato alle stelle dopo l’abolizione del prezzo politico, della crisi degli alloggi, provocata dagli affittuari che impongono di comprare la mobilia oltre a pagare l’affitto, della riforma elettorale maggioritaria, reclamata dai fascisti. La stampa dà ampio spazio alle vicissitudini degli altri Paesi, in particolare dell’ex impero austro-ungarico. Sulla possibile marcia invece glissa. Non è distrazione o reticenza. È che alla marcia su Roma non ci crede nessuno.
“Tutto lascia prevedere che il fascismo, malgrado le sue smargiassate retoriche, si inserirà come parte integrante nel gioco delle forze politiche tradizionali”, scrive Antonio Gramsci. “Non abbiamo mai creduto, non crediamo alla marcia su Roma”, pubblica l’Avanti!. Anche La Stampa, il quotidiano più decisamente antifascista, pur bollando le continue minacce insurrezionali di Mussolini parla, in un pezzo non firmato ma scritto da Luigi Salvatorelli, di “voci di complotti insurrezionali e di rivolte armate alle quali, come i lettori sanno, noi non abbiamo creduto mai”.
Tutti ritengono che la soluzione della crisi sia l’ingresso dei fascisti nel governo, e la loro conseguente “istituzionalizzazione”. I leader liberali, nessuno escluso, solo a quell’esito puntano. Nessuno crede davvero all’insurrezione per il semplice fatto che i fascisti non hanno alcun bisogno di marciare su Roma per arrivare al potere. Si tratta solo di capire chi guiderà il governo segnato dalla presenza fascista e quanto alto sarà il prezzo che chiederà Mussolini. Ogni resistenza a un governo dominato anche se non guidato dai fascisti si era già sgretolata. Il 6 ottobre si era svolto a Bologna il congresso liberale. La proposta sul tappeto era una maggioranza parlamentare antifascista composta dal blocco liberale, dal Partito popolare, e dai socialisti scissionisti di Turati e Treves.
Proprio la scissione, che aveva sottratto ai socialisti massimalisti 85 parlamentari, rendeva possibile quella maggioranza. L’ipotesi non era arrivata neppure a vedere la luce. Giolitti la aveva esclusa in un’intervista e quando l’11 ottobre il riformista Treves lo andrà a trovare a Cavour liquiderà senza neppure rispondere l’offerta del sostegno socialista a un suo governo senza i fascisti. Degli altri principali leader liberali, Nitti non si era presentato proprio alle assise, per inviare così un segnale preciso di disponibilità a Mussolini. Nella partecipazione di Salandra, il “fascista onorario” come si definiva lui stesso, non ci sperava nessuno. Il passaggio chiave era arrivato nel secondo giorno del congresso al momento di votare il nome del nuovo partito che avrebbe dovuto riunire le varie anime del liberalesimo italiano. La proposta era di chiamarlo “Partito liberal-democratico”. La maggioranza respinse. Definirsi “democratici”, con Mussolini che sparava a zero sulla democrazia ogni giorno, avrebbe potuto irritare il duce.
La strada per il potere sarebbe dunque spianata di fronte ai fascisti senza alcun bisogno di insorgere. Ma il prezzo sarebbe quella normalizzazione del fascismo che Mussolini vuole a tutti i costi evitare e inoltre non è affatto detto che gli squadristi accetterebbero il compromesso. Dunque per l’intero mese di ottobre il capo del fascismo tratta con tutti, un po’ per tenersi aperta ogni porta, molto per fuorviare e paralizzare i leader liberali. Alza continuamente il prezzo: esige la riforma elettorale, lo scioglimento delle camere e le elezioni anticipate ma anche un numero di ministeri che cresce di settimana in settimana sino ad arrivare a sei ministeri, tutti centrali, nel nuovo esecutivo. Avverte però che lui non intende far parte del governo.
Mussolini vede più volte Lusignoli, il prefetto di Milano emissario di Giolitti. Si tiene in contatto con Nitti attraverso due diversi ambasciatori e lo illude facendo capire, addirittura dalle colonne del Popolo d’Italia, di essere favorevole a un suo governo “per salvare l’Italia”. Lusinga Facta facendogli riferire che preferirebbe fosse lui a succedere a se stesso ma Facta, capo di un governo che lui stesso definisce “morto”, resta fermo nel proposito di approdare a un governo Giolitti-Mussolini. Proprio per questo si arrende all’offensiva fascista nel Trentino, lasciando le “terre redente” nelle mani degli squadristi: “Faccio l’impossibile perché dopo di me venga Giolitti e se potrà combinare con i fascisti tanto meglio”, scrive alla moglie. È in partita anche Vittorio Emanuele Orlando che però tenta la carta d’Annunzio, sale al Vittoriale ma non riesce a smuovere il Poeta.
Discorso a parte merita Antonio Salandra, rappresentante dell’ala più a destra dei liberali, quasi limitrofo al fascismo. Anche lui briga per portare i fascisti al potere in un governo da lui presieduto e non fa mistero della sua strategia, del resto non molto diversa da quella degli altri leader liberali: “Dare senza indugio forma legale all’inevitabile avvento del fascismo al potere”. La differenza è che proprio su Salandra puntano e punteranno fino all’ultimo secondo i “fascisti antimarcia”, i ras che provano a evitare la marcia convinti che si potesse arrivare al potere per vie legali.
Il principale nemico dell’insurrezione è Dino Grandi, in rotta di collisione con Balbo che ne è invece, con Bianchi, il principale sostenitore. “Voi vi preparate all’insurrezione proprio quando dell’insurrezione non c’è più bisogno” risponde a Balbo che lo accusa di essersi “messo a fare il parlamentare, il giolittiano”. Le critiche di Grandi, che lo spingono a dimissioni respinte dalla Direzione del Pnf, sono in realtà più complessive, riguardano il partito-milizia, la “trasformazione del partito in esercito” che a suo parere avrebbe portato inevitabilmente allo scontro con l’Esercito e con il re. De Vecchi, l’altro fascista antimarcia, non si fa problemi di questo tipo.
La sovrapposizione tra partito e milizia gli va benissimo. È un convinto sostenitore dell’uso della violenza che “è forza e di forza ha bisogno il rammollito Stato democratico”. De Vecchi però è rigidamente monarchico ed è contrario alla marcia proprio perché teme che questa minacci il trono. Grandi e De Vecchi, coadiuvati da nazionalisti come Federzoni e Costanzo Ciano, avrebbero insistito e tramato per tutto ottobre, con l’obiettivo di evitare anche in extremis l’insurrezione e insediare al Viminale, allora sede della presidenza del consiglio, Salandra. Alla guida di un governo pieno di fascisti.
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