“Bravo Viktor!” Nel giorno in cui arrivavano le notizie del massacro di Bucha, il primo pensiero di Matteo Salvini è andato all’amico Viktor Orbán, riconfermato primo ministro dell’Ungheria dopo l’exploit elettorale di domenica scorsa. “Da solo contro tutti, attaccato dai sinistri fanatici del pensiero unico, minacciato da chi vorrebbe cancellare le radici giudaico-cristiane dell’Europa, denigrato da chi vorrebbe sradicare i valori legati a famiglia, sicurezza, merito, sviluppo, solidarietà, sovranità e libertà, hai vinto anche stavolta grazie a quello che manca agli altri: l’amore e il consenso della gente. Forza Viktor, onore al libero Popolo ungherese”.

Così ha scritto il leader della Lega sul suo profilo Facebook. Nulla di nuovo sotto il sole. Salvini e Orban amoreggiano da sempre. Il leader magiaro – cattivissimo con gli immigrati e con l’Europa – è un punto di riferimento stabile per il capo del Carroccio. Negli anni in cui il sovranismo populista sembrava un cavallone inarrestabile – non molto tempo fa, a dire il vero – Orbán era certamente il capo di governo nazionalista più rappresentativo d’Europa, alla guida del gruppo dei paesi di Visegrad. Le sue politiche conservatrici e illiberali, in aperto contrasto con le regole dell’Unione europea, scatenavano brividi di piacere e di invidia lungo la schiena dei populisti nostrani: non solo Salvini, ma anche Meloni. La sua feroce opposizione contro la redistribuzione dei migranti alle porte dell’Europa e la totale indisponibilità all’accoglienza sul suolo patrio erano, per la Lega e per Fratelli d’Italia, il format delle politiche che anche l’Italia avrebbe dovuto adottare per governare l’emergenza degli sbarchi. Salvini ha condiviso con Orbán anche la sfegatata ammirazione per Vladimir Putin, considerato come il faro globale della nuova destra ultranazionalista, nemica delle mollezze e dei cedimenti delle democrazie occidentali.

Nel frattempo, però, l’imbarazzo tra i partner europei è cresciuto. Via via, gli omologhi popolari di Fidesz, il partito di Orbán, hanno cominciato a percepirlo ben poco democratico e cristiano. Così, prima di esserne cacciato, nel marzo dell’anno scorso è stato lo stesso Orbán a sganciarsi dal gruppo parlamentare del Ppe. Da quel momento sono cominciate le trattative con Marine Le Pen, con i polacchi del Pis e con il nostro Matteo Salvini per la costruzione di un nuovo raggruppamento sovranista e populista. Negli ultimi anni, però, le fortune politiche di Salvini sono state altalenanti. Tutto comincia dallo stordimento da Papeete che lo porta al suicidio politico proprio mentre stava al governo. L’ultimo infortunio è la figuraccia internazionale rimediata in Polonia dove il sindaco ultranazionalista di Przemysl gli ha rinfacciato le relazioni con Vladimir Putin. In questo marasma mentale e politico, la Lega vive una crisi di identità e di leadership, combattuta tra un’ala governista e moderata rappresentata da Giancarlo Giorgetti e dai presidenti di regione e la scapigliatura movimentista del “Capitano”, sempre in preda al parossismo demagogico. Ecco perché oggi, di fronte all’aggressione russa dell’Ucraina, il nuovo Matteo Salvini in versione ‘mansueta pecorella’ fa un po’ sorridere.

L’uomo che voleva armare fino ai denti i gioiellieri del nord per consentirne la difesa dai rapinatori temerari e che andava a caccia di tossici citofonando casa per casa, di fronte ai bombardamenti russi e ai massacri di civili ucraini è cambiato: organizza pellegrinaggi ad Assisi, diffonde il verbo di Papa Francesco, non applaude Draghi quando promette di fornire armi alla resistenza ucraina. Ma non bisogna stupirsi. Sparare al rapinatore o all’immigrato, ma non volere la guerra in casa sono due facce della stessa medaglia: il qualunquismo del proprio “particulare”. Su questi umori così terra terra la demagogia populista costruisce da sempre le sue fortune.  Ne sa qualcosa Viktor Orbán che ha vinto la sua campagna elettorale con lo slogan “Pace e bollette”. Tradizionalmente interprete di una retorica militaresca, anche il leader ungherese si è riscoperto alfiere della pace e dell’imparzialità quando ha dovuto schierarsi sulla questione ucraina. Troppo forte il legame con Putin, troppi interessi comuni per bruciarli sull’altare della libertà del popolo ucraino. In più, Orbán si è qualificato in campagna elettorale come il garante della lotta contro l’inflazione e, soprattutto, del contenimento delle tariffe dell’energia.

Pace e bollette: ecco la ricetta facile e ideale per assicurare il quieto vivere degli ungheresi. E che cosa ha fatto Salvini negli ultimi mesi? Esattamente la stessa cosa. “Stiamo lavorando su provvedimenti concreti, a fronte di una vera e propria emergenza nazionale che impone scelte rapide. L’Italia è in pericolo: queste bollette frenano la ripresa e mettono in ginocchio famiglie, artigiani, commercianti e imprese. Bene che tutti i partiti siano d’accordo con la Lega”, diceva Salvini a febbraio, poco prima dell’inizio della guerra. Una tiritera rafforzata anche dopo l’aggressione dell’Ucraina. “Bene i miliardi già stanziati dal governo per aiutare famiglie e imprese a pagare e rateizzare le bollette di luce e gas, ma bisogna fare di più”, ha ripetuto Salvini di recente. Certo, famiglie e imprese vanno aiutate. Ma la demagogia del Capitano, fin dai tempi di Quota mille e del Reddito di cittadinanza, non ha limiti. Mettere le mani nel portafogli dello stato per accontentare ogni richiesta che proviene dal proprio elettorato è una strategia facile. Ma dimentica un busillis: il portafoglio dello stato attinge ai portafogli dei cittadini.

Su questa linea, però, Salvini non agisce da solo. In Italia, Pace e bollette potrebbe essere il nuovo nome del Pup, il partito unico del populismo, di cui fa parte anche, a pieno titolo, il M5s. A differenza di Salvini, Giuseppe Conte non indossa felpe ed è molto più abile del collega nel far perdere le tracce delle proprie posizioni. Né si è mai schierato apertamente con Orbán. Abbiamo notato tutti, però, che il capo politico dei grillini non ha ancora pronunciato una sola parola contro Vladimir Putin. I forti legami intrattenuti dal suo partito e dai suoi governi con la Russia, lo portano oggi ad assumere posizioni assai blande rispetto all’enormità dei fatti. Sull’Ucraina Conte ha assunto una postura terzista, tiepidissima verso l’Ue e verso la Nato, che lo colloca sulla stessa linea della Cina, non a caso il principale alleato di Putin: “Uscire dalla logica dei due blocchi”, è diventato il mantra dell’avvocato di Volturara Appula. E proprio sulle spese militari è scattato il riflesso condizionato del populismo: non possiamo spendere per la sicurezza, quando le priorità dei cittadini sono sociali ed economiche. Pace e bollette, appunto. Ma non basta.

Da qualche settimana Conte ha deciso di giocare fino in fondo la sua partita di destabilizzatore: dopo le spese militari ha messo nel mirino il governo su Def e riforma della giustizia. Per ora, per fortuna, c’è ancora il povero Draghi che tiene a bada le mattane degli orbaniani italiani. Ma quanto durerà? Fuori della maggioranza di governo, anche Giorgia Meloni, dopo una improvvisa svolta atlantista, è tornata a esultare domenica per la vittoria del primo ministro magiaro. Sia che si calcolino i numeri del parlamento attuale, sia che si calcolino i numeri dei sondaggi, una cosa appare chiara: oggi l’Italia è ancora dominata da una variegata maggioranza orbaniana (e putiniana) trasversale che avvicina in modo preoccupante il nostro paese all’Ungheria. Il problema è che nel 2023 si vota. E potrebbe non esserci più Draghi, finora l’unico adulto capace di governare gli scalmanati.

Journalist, author of #Riformisti, politics, food&wine, agri-food, GnamGlam, libertaegualeIT, Juventus. Lunatic but resilient