C’è una cisti nel cuore dell’Europa. E si chiama Ungheria. Il primo ministro magiaro Viktor Orbán vince in modo schiacciante (135 seggi su 199) le elezioni di domenica e dà il via al suo quarto mandato consecutivo.  Al potere dal 2010, il leader sovranista alleato del Cremlino è da tempo in rotta di collisione con le istituzioni europee. “Una vittoria tale che può essere vista dalla luna, ma sicuramente da Bruxelles”, dice con tono sprezzante Orbán nel discorso della sera a urne chiuse. Con una guerra in corso alle porte di casa – l’Ucraina copre il confine orientale dell’Ungheria e la provincia ucraina della Transcarpazia ospita 151 mila cittadini di origine ungherese – il primo ministro magiaro si presenta come il guardiano della stabilità e della pace. Attaccato dal presidente Volodymyr Zelensky per aver adottato una linea morbida con Mosca, si oppone al divieto delle importazioni di energia russa, rifiuta di fornire armi a Kiev e non consente ad altri paesi membri il trasferimento di forniture militari tramite il territorio ungherese. Questo atteggiamento fa di Orbán la campana stonata nel ritrovato concerto unitario dei paesi Ue contro la protervia di Vladimir Putin. Una posizione che isola sempre più l’Ungheria nel blocco europeo.

Fino a qualche tempo fa, l’Ungheria era, con la Polonia, il paese di punta del blocco di Visegrad, un gruppo di quattro paesi dell’Europa orientale (ci sono anche Slovacchia e Repubblica Ceca) portatori di rivendicazioni specifiche rispetto all’Unione europea. Ma soprattutto segnati da due problemi. Uno è la debolezza dello stato di diritto: violazione della separazione dei poteri, stretta sui media, dipendenza della magistratura dal potere politico, negazione dei diritti civili e marginalizzazione delle minoranze lgbtq. L’altro è quell’atteggiamento sleale e opportunistico all’interno dell’Unione che associa alla richiesta di vantaggi economici la defezione dagli impegni comuni, per esempio sul tema dell’accoglienza degli immigrati. Di recente, il gruppo di Visegrad si è spaccato in due. Slovacchia e Cechia hanno avviato un processo di maggiore integrazione nel quadro del diritto comunitario.

Il primo ministro slovacco Eduard Heger, salito al potere lo scorso anno, ha rotto con i governi populisti del recente passato. Poi è stata la volta del primo ministro ceco Petr Fiala, entrato in carica alla fine dell’anno scorso, con la promessa di una maggiore adesione ai canoni delle democrazie europee. E così Polonia e Ungheria restano le pecore nere dell’unione sul piano del rispetto dello stato di diritto. Una linea esplicitamente teorizzata da Orbán che, per definirla, ha perfino coniato un neologismo: “democrazia illiberale”. La vittoria di domenica è la controprova di questo specifico regime. Come denunciano gli oppositori, il sistema di gioco che regola la disputa elettorale è, nei fatti, truccato. Fidesz, il partito di Orbán, contando su un’ampia maggioranza parlamentare, ha ridisegnato il sistema elettorale in modo tale da favorire i collegi dove era più forte. In più, il governo uscente controlla, direttamente o indirettamente, gran parte del panorama dei media, drogando il dibattito pubblico con la propria propaganda, mentre la voce delle forze dissidenti viene marginalizzata.

Non è una novità. La regressione democratica dell’Ungheria è da tempo sotto la lente delle istituzioni dell’Ue. Nel 2018, per scongiurare le tendenze sempre più autocratiche del governo magiaro, il Parlamento europeo ha avviato la procedura di censura dell‘articolo 7 dei Trattati (che prevede la possibilità di sospendere i diritti di adesione all’Ue in caso di violazione grave e persistente dei principi basilari sui quali poggia l’Unione). Ma senza successo. Allo stesso modo, Bruxelles ha finora sospeso lo stanziamento di 7 miliardi di euro del Recovery Plan pandemico per costringere Budapest a rivedere le sue politiche contro la corruzione e le norme che escludono le minoranze sessuali nel paese. Ma non ci sono state conseguenze concrete. Nelle settimane prima delle elezioni, la Commissione europea avrebbe dovuto attivare un nuovo meccanismo per tagliare i fondi di bilancio all’Ungheria allo scopo di sanzionare le carenze dello stato di diritto nel paese. Ma la Commissione ha rimandato per non essere accusata di influenzare le elezioni. Dopo la riconferma di domenica è sicuro che Bruxelles ritornerà a sfidare il governo di Orbán su diverse questioni: i diritti Lgbtq, l’indipendenza della magistratura, i flussi migratori e la libertà dei media.

Nel frattempo, si è aperto anche il fronte della reazione alla guerra avviata dalla Russia in Ucraina. Viktor Orbán, da sempre il leader europeo più vicino a Vladimir Putin, ha assunto una posizione molto blanda nei confronti della Russia. Ma questa amicizia di ferro potrebbe diventare la goccia che fa traboccare il vaso. L’antico sodalizio populista con la Polonia è già in crisi. Varsavia percepisce Budapest come il cavallo di Troia di Mosca dentro i confini dell’Unione europea. Terrorizzata dalla violenza di Mosca, la Polonia è il paese europeo più disponibile a misure sempre più dure, sia economiche che militari, per rintuzzare l’avanzata russa in Ucraina. Nelle settimane scorse Joe Biden ha visitato il paese per rimarcare la protezione della Nato e rassicurare il governo sul fronte militare. Ma è tutta l’Europa a temere che la riconferma di Orbán possa soffiare sulle tendenze populiste (che ultimamente sembravano sopite) nei diversi paesi membri, alimentando le simpatie filorusse di alcune forze estremiste. “Non è solo la nostra vittoria”, ha detto ai suoi seguaci nel discorso della vittoria.

E poi: “Il mondo intero ha potuto vedere che la politica cristiana democratica e conservatrice non è il passato, è il futuro”. Orbán elenca i nemici: la sinistra ungherese, la sinistra internazionale, i burocrati di Bruxelles, il finanziere ungherese-americano George Soros, il presidente ucraino Volodymyr Zelesnky. Ma la lista degli amici è inquietante. I trumpisti americani con in testa Tucker Carlson, il giornalista di Fox News che ha detto che “l’America dovrebbe prendere lezioni dall’Ungheria”. L’italiano Matteo Salvini, che ha già sposato il programma ‘pace e bollette’ del primo ministro magiaro. Il presidente serbo Aleksandar Vučić, anche lui filorusso e rieletto domenica, che sempre più diventerà un elemento di destabilizzazione dell’area balcanica a causa dei legami di acciaio con Mosca. La francese Marine Le Pen, che prova a insidiare la riconferma di Emmanuel Macron nelle elezioni con ballottaggio che si terranno il 10 e il 24 aprile. Dopo l’incancrenirsi della sfida populista in Ungheria, l’Europa attende adesso la Francia con il fiato sospeso.

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