Del dibattito sulla tragedia di Paderno Dugnano sorprende un po’ l’attenzione per i gusti musicali del ragazzo omicida, in particolare il riferimento alla “tristezza” di certe canzoni e lo scandaglio esegetico che ne è stato fatto. La malinconia fa parte della vita. E’ il “principio di tristezza in fondo all’anima” che cantava De Gregori in “Atlantide”, è lo spleen di Baudelaire, sono i versi di tanti cantanti e scrittori che hanno accompagnato l’adolescenza di ragazzi di ogni epoca e condizione.
Alcuni dei miei amici più cari sono persone che al liceo guardavano film che oggi definiremmo tristi, e probabilmente è anche intorno alla fruizione di contenuti culturali “complessi” che si è cementata una certa fiducia tra di noi, come forma di riconoscimento reciproco.

Paderno Dugnano, il dibattito sulla tristezza

No, il dibattito sulla “tristezza” di cui parlo sopra merita di essere sottolineato non tanto per dare risposte a una vicenda che immagino molto più articolata, quanto proprio per capire in che misura la nostra società si possa essere disabituata a una certa idea di “tristezza” e di straniamento. Fino quasi a stupirsi, quando se le trova davanti.
Qui però non è in discussione la difficoltà di vivere di un adolescente, quanto il grado di libertà che un ragazzo abbia oggi – in questo mondo di infinite possibili relazioni, e infinite possibili sollecitazioni – di manifestarlo, senza sentirsi per questo ancora di più emarginato o fuori posto.

Il punto è come, e con chi, si possano costruire la confidenza e la fiducia di cui parlo sopra, e dove possa esistere il riconoscimento di una legittima, comune dimensione dell’intimità e della fragilità.
Se – come si dice – i giovani di oggi sono diversi da quelli di ieri, credo che molto dipenda appunto dalla rimozione di quella dimensione di fragilità dal loro orizzonte di vita. Rimozione condizionata dalla contemporanea espansione di una idea di performatività coatta, dilatatasi fino a diventare totalitaria, nelle diverse dimensioni sociali che investe.
Mi si obietterà che è pieno di cinquantenni e sessantenni che fanno tuttora a pugni con l’idea di fragilità e intimità, e anche questo è vero.

Le pressioni e gli obblighi di “risultato” di oggi

E’ però altrettanto vero che nessun cinquantenne o sessantenne ha subito – da adolescente – le pressioni, i condizionamenti, e certi obblighi di “risultato” che travolgono oggigiorno i più giovani. Anziché preoccuparsi per la “tristezza” dei ragazzi (magari con il discutibile intento di separare “arte buona” da “arte meno buona” per le nuove generazioni) bisognerebbe dunque aiutarli a conoscere ed attraversare questo sentimento, imparando a liberarne la parte più feconda e creativa, che passa appunto dall’incontro con il limite, in tutte le sue forme. Se vogliamo poi parlare di un vero e proprio “diritto alla tristezza”, consiglio la bella raccolta di lettere di Emil Cioran, “Il nulla per tutti”, recentemente edita da Mimesis, in cui il tema della sofferenza emerge proprio insieme al suo apparente contrario: lo slancio vitale, la sfrontatezza beffarda, l’ironia come arma e, al tempo stesso, consolazione: “Ho sopportato il mondo e il mio orrore per il mondo, facendomi beffe sia del mondo sia dell’orrore, che non ha mai mancato di ispirarmi”.

Ben più che tragico (come lo vuole una certa vulgata) Cioran è stato un pensatore autenticamente libero, e come tale ha esplorato molteplici dimensioni del vivere, e le loro contraddizioni, sempre con estremo coraggio ed estrema coerenza.
E forse proprio di questo oggi avremmo tutti bisogno, del coraggio degli esploratori.

Gabriele Molinari

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