Gli slogan hanno le gambe corte. Come le bugie. Ma è difficile che l’occhio scenda a guardare, distratto dalle immagini della retorica. In questi giorni si torna a parlare di pensioni. Il palcoscenico internazionale pretende il primo piano, e non solo per ora. Giusto. Ma la vita quotidiana delle persone impone (o imporrebbe) riflessioni forse meno “alte”, ma altrettanto importanti.

Quando si torna a parlare di pensioni prevale sempre un atteggiamento consolatorio. Scattano le preoccupazioni della politica (almeno di quella italiana, non da oggi) che si propone di immaginare tutele da offrire ai cittadini in difficoltà. Negli anni passati i dibattiti sono stati riempiti da un vocabolario metaforico, dove “scaloni” e “scalini” erano modalità per regolare un’uscita improvvida dal mondo del lavoro; poi si è passati alle “salvaguardie” da assicurare per gli “esodati”, vittime di qualche ruvido calcolo attuariale che imponeva il sacrificio di qualcuno per il bene di tutti (così almeno era la vulgata, una quindicina di anni fa). Talvolta le metafore servivano per rendere più digeribili espressioni sfuggite a qualche ministro (o ministra) non avvezzo al confronto istituzionale (“Bisogna amputare una gamba se è infetta, per evitare che guasti anche il resto del corpo”) e incapace di ammettere di aver sottovalutato i calcoli – corretti – offerti da altri. E poi sono arrivate le “quote”, accompagnate da numeri ingiocabili né alla roulette, né alla tombola, perché superiori a 100.

L’ultima “quota”, quella indicata dal numero 103, si è rivelata sgradita e inutilizzata dai più. Chi ha un lavoro se lo tiene stretto: meglio un salario oggi, che una pensione domani. Anche perché questo continuo armeggiare intorno agli strumenti previdenziali rende sempre meno comprensibile l’entità esatta della prestazione. Progettare il proprio futuro dopo il lavoro è diventato sempre più difficile: il calcolo contributivo è diverso da quello retributivo che è stato il conforto di tutte le generazioni prima della nostra, la regolarità della contribuzione è diventata meno certa, nel corso della vita professionale; ma un bel po’ di incertezza è stata introdotta dagli slogan di una politica sempre meno competente (forse) e certamente sempre più reticente. Già, perché ogni novità introdotta ha un prezzo. E lo paga il lavoratore pensionando. Peccato che non gli venga sempre ricordato che, a fine pranzo, il conto è inevitabile. Negli ultimi mesi, di fronte all’eventualità di un nuovo slittamento dell’età di pensionamento – in relazione al nuovo incremento dell’aspettativa di vita, certificato dall’Istat – molti hanno voluto assicurare gli italiani che sarebbe stato tutto “congelato”. Cioè nessun adeguamento.

Peccato che, come ha scritto la Ragioneria generale dello Stato, in mancanza di un adeguamento le pensioni finiranno per essere decurtate, perché il coefficiente di rivalutazione dipende anche dal tempo in cui si va in pensione. Andrea Bassi sul Messaggero ha avuto il coraggio di scriverlo. Ma qualcuno dei politici e dei sindacalisti così preoccupati di tutelare i pensionandi glielo ribadirà? Più che di paternalismo gli italiani avrebbero bisogno di chiarezza e di trasparenza. L’opacità è frutto di insipienza o di malizia? In entrambi i casi sarebbe ora di dire tutta la verità. Come quella che riguarda la durata media della vita lavorativa in Italia: tra le più basse d’Europa. Di peggio fa solo la Romania. Lo ha verificato in questi giorni l’indagine della Cna “Demografia, occupazione e previdenza – L’Italia nel contesto europeo”. Per la precisione – come si legge sul sito della Cna -la durata media della vita lavorativa nel nostro Paese è di 32,8 anni.

All’opposto della graduatoria l’Olanda (43,8 anni), la più ‘virtuosa’ su questo fronte, con Svezia (43 anni) e Danimarca (42,5 anni) a comporre il podio. A fronte di una media di 37,2 anni di vita lavorativa nell’Europa a ventisette Paesi, la Germania arriva a 40 anni, la Francia a 37,2 anni (in perfetta media, quindi) e la Spagna un poco sotto, a 36,5 anni. È difficile ribadirlo: ma i salari (e poi la pensione) dipendono dalla produttività. Vocabolo che non ha nulla di metaforico, e forse per questo assai trascurato dal lessico della politica italiana.