I salari
Italia, lavori e resti povero: il 12% degli occupati in crisi. E cresce solo l’occupazione che costa meno

Il Rapporto Istat sulla situazione del Paese, presentato nei giorni scorsi, ci conferma che in Italia esiste un problema di “lavoro povero”. Per lavoratore povero si intende una condizione precisa, ossia coloro che hanno un reddito disponibile inferiore al 60% del reddito mediano nazionale (intorno agli 8 euro lordi orari). Si tratta del 12% circa dei lavoratori italiani, che vivono questa situazione o perché lavorano part time, o per i salari bassi.
Quando si parla di questa condizione e di come affrontarla, la soluzione di solito viene collocata su un doppio binario, ossia la contrattazione collettiva o il salario minimo. Per decenni, come previsto dalla stessa interpretazione della Costituzione, il tema delle retribuzioni è stato di stretto dominio sindacale. In questi anni la difficoltà dei sindacati di estendere la rappresentanza nelle aree più deboli del mercato del lavoro ha determinato, come conseguenza, che alcune organizzazioni sindacali e forze politiche hanno posto il tema dell’introduzione del salario minimo per legge.
Sono intorno al 10% i lavoratori italiani che guadagnano meno di 9 euro lordi l’ora, considerata dai proponenti una soglia di riferimento per l’introduzione di un eventuale salario minimo. Al tempo stesso, molti giuristi ed economisti sostengono che in una Nazione in cui abbiamo decine di diversi contratti collettivi applicabili per la stessa categoria, l’introduzione di una soglia minima salariale rischia di determinare una concorrenza al ribasso, con effetti persino controproducenti sulla retribuzione media che si verrebbe a determinare.
A questa discussione sembra che continui a sfuggire un tema di fondo, che invece non sfugge all’Istat, ossia che il fenomeno del lavoro povero costituisce la ricaduta su una minoranza di lavoratori più deboli di una situazione complessiva che ha un significato ancora più grave, ossia il rischio di impoverimento del lavoro italiano. Questo impoverimento si è determinato negli ultimi vent’anni ed ha diverse ragioni. Una delle più evidenti è quella economica: se la ricchezza non si crea nessun contratto e nessun salario per legge la può distribuire, e la ricchezza, ossia il valore aggiunto, si determina nel rapporto tra competenze, innovazione e produttività, non si scappa. Riportare il tema dei salari e del lavoro povero alla questione della produttività, dell’innovazione e della qualità è risolutivo.
Il lavoro povero costituisce, in Italia soprattutto, la conseguenza della presenza diffusa nel nostro tessuto economico di settori a basso valore aggiunto e produttività. La minore innovazione genera meno valore e quindi determina condizioni di lavoro peggiori e salari più bassi. Sappiamo bene dove, come e perché questo accade. Nel 2024, ci ricorda l’Istat, la crescita dell’occupazione superiore a quella del valore aggiunto ha comportato una diminuzione della produttività del lavoro per occupato dello 0,9% e di quella per ora lavorata dell’1,4%.
Questo fenomeno coinvolge comparti significativi per la domanda di lavoro come i servizi alla persona, la ristorazione e la ricettività turistica. Non si può immaginare una risposta per legge o per contratti a questo problema se non creiamo le condizioni economiche per un miglioramento della produttività e del valore aggiunto nei settori più deboli o meno innovativi. Insomma, l’occupazione in Italia cresce dove esprime meno valore, ma restiamo fermi in quei settori che creano più valore e per questo determinano anche migliori salari e condizioni di lavoro.
Questo fenomeno comporta un’altra conseguenza: i settori a basso valore aggiunto, assorbono meno manodopera qualificata e meno laureati, a cui si legano migliori retribuzioni. I livelli di assunzione di laureati raggiunti in Italia sono particolarmente elevati (dal 40 al 55%) tra le attività dei servizi intensi in conoscenza, con gli incrementi più notevoli per quelli finanziari e di informazione e comunicazione, mentre la crescita è invece più contenuta nelle attività caratterizzate da minore scolarizzazione, quali le costruzioni, i servizi di alloggio e ristorazione, i servizi alle imprese ed i servizi alla persona. Secondo Unioncamere, il settore che in Italia esprime la maggiore domanda di lavoro, ossia il turismo, ha una domanda di laureati inferiore al 4%.
È del tutto evidente da questi dati come in Italia la crescita dell’occupazione ha riguardato in misura maggiore i profili con qualifiche medio-basse, rispetto alle altre maggiori economie europee. La questione di fondo è oggi quella di definire una strategia che sostenga l’innovazione e la produttività delle imprese e del lavoro in tutti i comparti, per mettere in qualità il nostro sistema economico. Bisogna tornare a creare ricchezza sostenendo i settori, come il manifatturiero, che lo sanno fare e facendo in modo che i settori che creano poco valore, dalla Pubblica amministrazione al turismo, siano messi in grado di migliorare insieme qualità e stipendi.
© Riproduzione riservata