C’è qualcosa di profondamente malato nella politica italiana. Una degenerazione che non riguarda solo i toni o le forme, ma la sostanza del dibattito pubblico. La nostra democrazia è sempre meno un terreno di confronto tra idee, e sempre più un’arena dove si combatte per il gusto di scontrarsi, anche a costo di negare ogni responsabilità verso il futuro del Paese. Finché siamo in tempo, occorre che cittadini e forze politiche più lucide si fermino a riflettere: cosa stiamo rischiando? La contesa politica è ormai diventata autoreferenziale. Lontana dai bisogni concreti delle persone, indifferente ai nodi veri dell’economia, priva di spirito riformatore.

In un Paese normale, si discuterebbe di come migliorare la competitività, per ottenere più posti di lavoro e migliori salari; in Italia invece si imbastisce un referendum – affidato dall’opposizione alla Cgil – per tornare a parlare di precarietà con toni da anni ’70. Ma chi ha governato per decenni, alternandosi con il centrodestra, ha forse diritto di posare oggi la maschera e accusare il sistema? Non è stata proprio una certa sinistra, in combutta con un sindacalismo immobile, a frenare ogni tentativo serio di riforma del mercato del lavoro?

All’interno di questi referendum finiscono anche i subappalti, altro terreno emblematico dell’ipocrisia. Ma le forze politiche né a Roma né nei Comuni hanno mai agito. Avrebbero potuto stringere i capitolati di appalto, costruire barriere al malaffare, imporre controlli. Non l’hanno fatto. E adesso affidano tutto a un quesito? È comodo scaricare responsabilità quando si preferisce restare prigionieri dell’opposizione identitaria. È dunque un referendum che depista responsabilità, serve solo a chi ama confusione e deresponsabilizzazione. E allora meglio la soluzione costituzionale di contribuire a non far superare il quorum.

Il paradosso si compie poi su un piano più ampio, simbolico e pericoloso. Il 7 giugno, poche ore prima dell’apertura dei seggi, si terrà una manifestazione contro Israele. Non si condanna il terrorismo che colpisce Israele da decenni, non si dice nulla sul ruolo dell’Iran, che arma Hamas, Hezbollah e gli Houthi. Non si spende una parola per i dissidenti iraniani, per le donne perseguitate, per chi rischia la vita per la libertà. No: il bersaglio resta Israele, una democrazia con stato di diritto, l’unica in quell’area del mondo.

E quando anche tra i riformisti c’è chi prova a introdurre ragionevolezza, viene travolto dalla furia del “fronte”. Come se non si potesse più discutere, né sul referendum né sulla crisi mediorientale. Come se ogni dialogo fosse una resa. Ma se i solchi non si colmano con la cultura politica, se si continua a parlare solo per tifoserie, allora si finirà per parlarsi addosso. E noi continueremo a dire che Hamas non è la Palestina. È un’organizzazione terroristica che da anni bombarda Israele con missili, mossa dal disegno che dura da 77 anni: la distruzione di Israele. Chi non ha il coraggio di condannare tutto questo ha già perso. E sta facendo perdere tempo, e credibilità, anche a chi ancora crede nelle cause giuste.

Raffaele Bonanni

Autore