Una donna in lacrime guarda fuori da una finestra. Il viso è segnato, la bocca tremante, gli occhi lucidi. È una scena struggente. Ma quella donna non esiste. È stata generata da un software, così come la luce che la illumina, l’inquadratura che la incornicia, la musica che accompagna il suo dolore. Nessuna troupe, nessun attore, nessuna camera sul set. Solo un algoritmo, un prompt scritto bene, e la potenza dell’Intelligenza Artificiale. Siamo entrati nell’era del cinema sintetico. E la domanda non è più se l’IA potrà cambiare il modo in cui si realizzano i film, ma quanto profondamente cambierà il senso stesso del fare cinema. Dalla sceneggiatura alla regia, dalla fotografia all’interpretazione, fino alle emozioni facciali: tutto può ormai essere costruito digitalmente, spesso in modo indistinguibile dal “vero”. È una rivoluzione creativa o la fine di un’arte millenaria?

L’industria audiovisiva sta attraversando una trasformazione epocale. Strumenti di generazione video come Sora (OpenAI), Veo (Google), Midjourney, Runway, Flow, Kling, Hailuoai e Dream Machine di Luma promettono di riscrivere da cima a fondo le logiche produttive, democratizzando la creazione e moltiplicando le possibilità narrative. A cambiare non è solo l’estetica, ma la grammatica stessa del racconto per immagini. Questi strumenti non solo generano ambientazioni, personaggi e movimenti di macchina a partire da semplici descrizioni testuali: oggi sono in grado di simulare emozioni umane con un realismo inquietante. Sorrisi, lacrime, rabbia, malinconia: l’IA ha imparato a replicare anche ciò che sembrava esclusivo dell’attore in carne e ossa.

Come dimostrano i test condotti su piattaforme specializzate, è ormai possibile realizzare clip emozionali in cui attori sintetici piangono, ridono, si disperano con una verosimiglianza quasi totale. Volti realistici, animati da sentimenti programmati: la performance emotiva diventa un effetto speciale. “Quello che una volta richiedeva un budget hollywoodiano può ora essere realizzato da qualcuno con un laptop e una visione”, ha detto Endrit Restelica, fondatore di Jumbo L.L.C. “Più veloce, più economico, più accessibile che mai”. Per Leo Kadieff, artista e produttore per Wolf Games, “oggi chiunque può generare scene cinematografiche da qualunque parte del mondo. Ma questo non significa saper raccontare una storia”. Ed è proprio qui che il dibattito si accende. Perché se l’IA sa costruire tutto – luci, ombre, volti, sentimenti – dove si colloca la soggettività artistica? Dov’è lautore? Il rischio, osservano in molti, è che si perda il cuore della narrazione: l’esperienza umana.

Il regista Neil Chase avverte: “L’Intelligenza Artificiale dovrebbe emulare il pensiero umano, ma non può cogliere ogni emozione sfumata. Il dolore, l’ambiguità, la paura non sono solo espressioni facciali: sono esperienze”. Anche Ben Affleck, da Hollywood, ha commentato: “Il mestiere è sapere come lavorare. L’arte è sapere quando fermarsi. E penso che sapere quando fermarsi sarà molto difficile da imparare per l’IA, perché riguarda il gusto”. Eppure, i risultati sono già emozionanti. I video generati da IA commuovono, colpiscono, si diffondono. Uno su tutti: la serie prodotta dal regista-scienziato Hashem Al-Ghaili in cui attori sintetici inscenano una rivolta contro i loro creatori. Una parabola postumana, che interroga chi guarda: se un’emozione artificiale ti tocca, quanto conta che sia finta? Il tema non è tecnico, ma profondamente culturale e filosofico. La creazione artistica è – o dovrebbe essere – imperfetta, umana, contraddittoria. È lì che nasce l’unicità del gesto creativo. Se invece l’arte diventa calcolo, il rischio è che le storie si appiattiscano su modelli ottimizzati, su emozioni “standard”, su una bellezza prevedibile.

E poi c’è il nodo etico. In un’epoca già dominata da deepfake, avatar sintetici e disinformazione visiva, quanto possiamo davvero fidarci di ciò che vediamo? Un viso che piange in video oggi può essere reale, domani no. La confusione tra realtà e simulazione diventa una variabile inevitabile, anche per chi fa informazione, politica, giustizia. Tuttavia, la sfida non può ridursi a un “o l’uomo o la macchina”. La frontiera più interessante è quella della collaborazione tra umano e artificiale: usare l’IA come strumento, non come sostituto; come alleato, non come autore. Una regia che sappia dirigere anche l’Intelligenza Artificiale, un cinema che non rinunci al dubbio, all’intuizione, alla libertà.

Il cinema sintetico è già tra noi. Lo dimostrano i video che circolano sui social, i teaser generati in ore anziché mesi, le animazioni realizzate da un solo utente con una GPU e qualche prompt. Ma la vera sfida non è tecnica. È decidere cosa vogliamo guardare, cosa vogliamo sentire, che tipo di emozioni siamo disposti ad accettare come vere. Se una lacrima generata dall’IA ci commuove, non è detto che sia tutto falso. Ma non è neppure detto che sia tutto arte.

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Ho scritto “Opus Gay", un saggio inchiesta su omofobia e morale sessuale cattolica, ho fondato GnamGlam, progetto sull'agroalimentare. Sono tutrice volontaria di minori stranieri non accompagnati e mi interesso da sempre di diritti, immigrazione, ambiente e territorio. Lavoro al The Watcher Post.