Ci si stupisce che un laureato in Italia percepisca una retribuzione inferiore del 50% di quella che incassa un suo collega all’estero, ma non ci si chiede quasi mai il perché. In questi giorni AlmaLaurea ha diffuso l’annuale indagine sugli studi universitari e sulla loro armonizzazione con il mercato del lavoro. E si è scoperto che a un anno dalla fine degli studi un laureato magistrale in Italia riesce a mettersi in tasca poco meno di 1.400 euro al mese netti, mentre chi ha fatto le valigie guadagna almeno il 50 per cento in più (2.170 euro). Si “sociologizza”, ma non si capisce. Di fronte al dichiarato rifiuto (del 60% dei laureati triennali e del 66% dei laureati magistrali) di accettare un lavoro da 1.250 euro al mese ci si domanda se i nostri giovani siano o meno “choosy”, come se tutto si risolvesse dando più o meno ragione alla datata opinione dell’ex ministro Elsa Fornero, che venne contestata per aver affibbiato ai giovani italiani l’aggettivo inglese che sta più o meno per “schifiltoso” o “schizzinoso”, più che “esigente”.

Il Rapporto AlmaLaurea ha riacceso la questione delle basse retribuzioni nel nostro Paese. Cosa verissima, ma è curioso che questo possa riproporre il tormentone sul salario minimo per legge, invece che formulare risposte alla domanda: perché in Italia chi lavora è pagato così poco rispetto a quello che avviene fuori dai nostri confini? Per rispondere mi pare che bastino due parole: produttività e opacità nel mercato del lavoro. Nel periodo 1995-2022, la crescita media annua della produttività del lavoro in Italia (+0,4%) è stata decisamente inferiore a quella sperimentata nel resto d’Europa (+1,6% nell’Ue27). Tassi di incremento più in linea con la media europea sono stati registrati dalla Francia (1,0%), e dalla Germania (1,3%). In Italia, mentre nel 2022 la produttività del capitale è cresciuta in misura sostenuta (+2,7%) la produttività del lavoro è addirittura diminuita dello 0,7% (tra il 2014 e il 2022 era aumentata in media dello 0,5%).

I salari crescono in relazione alla produttività del lavoro. Certo, serve una buona contrattazione – e questo è un lavoro dei sindacati, prima e più che una riserva dei politici – ma il presupposto è quanto e come si lavora: ore lavorate e condizioni dei processi di lavoro. Secondo la Banca d’Italia uno dei problemi della scarsa produttività delle imprese italiane consiste nella ridotta dimensione delle nostre aziende. In tutta Europa, Italia compresa, infatti, la produttività delle imprese con meno dipendenti è minore di quelle più grandi. Le ragioni sono note, minore possibilità di fare investimenti in ricerca, maggiore vulnerabilità in caso di crisi, minore disponibilità di capitale umano specializzato e di alto valore, management infatti spesso proveniente dall’ambito familiare, minore possibilità di ottenere credito. Bassa produttività, bassi salari: è un’equazione banale. In più, bisogna rammentare il peso dell’opacità del mercato del lavoro. Quanta fatica si fa ad assumere in Italia? E quanto è difficile dare aumenti di merito? E quanto è difficile leggere una busta paga? Quando fui presidente Inps ho avuto spesso occasione di parlarne con i quattro ministri del Lavoro con cui ho avuto a che fare; e spesso ho suggerito di sollecitare il legislatore a mettere mano a una sostanziale semplificazione dei rapporti di lavoro che si traducesse anche in una più chiara rappresentazione della busta paga del lavoratore. Ho sempre sentito rispondere: “Meglio di no”.

La giungla delle trattenute incomprensibili, tra quelle sindacali e quelle previste da codicilli istituzionali, rende poco agevole l’azione sulla riga finale, ma evidentemente giustifica la presenza di qualche rappresentante negli inutili tavoli della sala verde di Palazzo Chigi. E poi ci sono i barocchismi sull’apprendistato, le inefficienze dei Centri per l’impiego, le finzioni sui percorsi formativi, dove si affacciano soggetti (quasi sempre di emanazione sindacale) che impongono un diritto di passaggio, come moderni Ghino di Tacco, senza offrire reali servizi formativi funzionali alle novità occupazionali e lavorative, tant’è che in Italia fioriscono le Academy aziendali (ce ne sono più di 150) dove è l’impresa che si fa carico della formazione reale. Di fronte a tutto ciò c’è da stupirsi che un giovane di valore, preferisca varcare il confine e andare a lavorare dove si trova lavoro in una giornata? La meritocrazia è fatta di competizione, a tutti i livelli. E quello che spetta alla politica – la riduzione del costo del lavoro – non può risolversi con la sequenza di qualche bonus, per gli under 29 o gli under 36, tutti provvedimenti a tempo che ripropongono la stessa liturgia celebrata dagli organismi sindacali e da quelli datoriali. Semplificazione e liberalizzazione sono due vocaboli che dovrebbero trovare spazio anche nel mercato del lavoro.

Antonio Mastrapasqua

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