Non si può non restare colpiti dalla bassa crescita tendenziale dell’economia italiana, in atto da oltre due decenni: zero virgola per cento l’anno. Esaurito nel 2021 e nella prima parte del 2022 il “rimbalzo” post-covid, il Pil è salito meno dell’1% nel 2023. Nel primo trimestre del 2024 l’incremento potrebbe non superare lo 0,1% orientando allo 0,5-0,7% la prospettiva per l’intero anno.
Questa deludente dinamica nasce da bassa accumulazione di capitale e ancor più dall’assenza di progresso tecnico, quindi da inadeguata produttività nell’uso delle risorse da parte del sistema delle imprese. Valutata dall’Istat a prezzi costanti, la produttività totale dei fattori è ferma al 1995! Un arco temporale così lungo è il risultato peggiore dell’Italia unita.

Nonostante i mediocri investimenti (dal 2013 spesso addirittura negativi al netto degli ammortamenti) e la stasi della produttività le imprese hanno nondimeno realizzato profitti. Li ha rispecchiati una Borsa spesso in ascesa, alimentata anche da tassi d’interesse attestati su minimi storici fino alla – tardiva – svolta antinflazionistica delle banche centrali nella primavera del 2022. Ma quegli utili sono stati fatti in ragione della cosiddetta moderazione dei salari post-1993, della sottovalutazione della lira al tempo del suo rientro nello SME (novembre 1996), del vuoto di concorrenza in diversi settori. Hanno soprattutto influito – per centinaia di miliardi – l’oscena evasione fiscale, i trasferimenti e le forniture di favore nei rapporti delle pubbliche amministrazioni con le imprese.
Si è trattato di profitti “facili”, se non di rendite.

Guadagni siffatti hanno contribuito a dissuadere le imprese nel loro complesso dall’impegnarsi lungo la via maestra della ricerca dell’utile fondata sull’investire e sull’innovare, volgendo piuttosto l’autofinanziamento a contenere i debiti.
L’occupazione era aumentata di un milione di unità (5% circa), più del Pil, già dal 2015 al 2022. Nel 2023 lo scarto si è confermato: +2% circa gli occupati, solo + 0,9% il Pil. La produttività – il problema di fondo dell’economia – non ne ha certo tratto beneficio. Lo stesso tasso di disoccupazione, sebbene sceso dal 12% nel 2015 al 7,2%, resta più alto della media europea (6,4%). Vi si uniscono i tanti giovani che non studiano, non lavorano, non intraprendono, semplicemente consumano a valere sulla eredità cospicua dei patrimoni accumulati da genitori e nonni.

I bassi salari – accettati per assenza di alternative e debolezza dei sindacati – hanno consolidato nelle imprese l’orientamento alla parsimonia nell’investire e nell’innovare, ad affidare a lavoratori marginali poco efficienti il modesto incremento della produzione.
Anche gli avanzi nella bilancia dei pagamenti di parte corrente registrati dal 2015 si prestano a una doppia lettura. Dopo aver ridotto la posizione debitoria netta del Paese verso l’estero, dal 2020 l’hanno trasformata in posizione creditoria. Ma gli avanzi non sono dovuti a un progresso nella competitività dei prezzi alla produzione del made in Italy, bensì al ristagno della domanda interna, per consumi e per investimenti, che ha contenuto le importazioni e spinto le imprese a esportare.
La debolezza della domanda e il basso costo unitario del lavoro hanno concorso al calo dell’inflazione, da quasi il 13% di fine 2022 (rispetto al 10% europeo) allo 0,8% del febbraio di quest’anno (rispetto al 2,6% europeo). Questo stesso dato è altresì esposto alle pressioni inflattive che possono riemergere dalla irresolutezza delle banche centrali, dalla spesa pubblica americana nell’anno elettorale, da tensioni geopolitiche che spingano di nuovo al rialzo le quotazioni internazionali delle fonti d’energia e dei prodotti primari, largamente importati dall’Italia.

I dati macroeconomici su produzione, occupazione, conti con l’estero, indici dei prezzi celano il buon andamento di un manipolo di aziende manifatturiere di media dimensione. Sono, queste, persino più produttive delle rivali europee similari. Ma permane la loro scarsa propensione ad aumentare la scala aziendale, a quotarsi in Borsa, ad aprirsi a capitale e dirigenza dall’esterno, a rompere con la tradizione dell’impresa piccola e “familiare”.
Al quadro macro, per nulla incoraggiante, si unisce l’assenza di una strategia di governo dell’economia chiara, di medio periodo, capace di fronteggiare i più seri punti di debolezza: una finanza pubblica per nulla risanata; un debito pubblico prossimo ai tre trilioni (140% del Pil); l’alto costo di tale debito, con uno spread rispetto al Bund che si è ridotto anche per le specifiche, strutturali difficoltà dell’economia tedesca, ma è comunque più elevato di quelli di Spagna, Grecia e Portogallo; carenza grave di infrastrutture; sprechi e i ritardi financo nell’investire in pochi, grandi progetti e non in mille rivoli i danari ricevuti dall’Europa per Pnrr; il Mezzogiorno abbandonato a se stesso; la sanità, in crisi; il territorio del Bel Paese esposto a rischi ambientali di ogni tipo; la vergogna, morale ed economica, di quasi sei milioni di cittadini in povertà assoluta; parti del diritto dell’economia da riscrivere; spinte politiche reazionarie, che minano l’assetto costituzionale democratico e il già precario rapporto fra le regioni.
No, almeno sotto questi profili l’Italia non può dirsi fiorente, né economicamente né sul piano istituzionale.

Pierluigi Ciocca

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