Un problema per il Governo
Il ministro che dice male le cose giuste
Il ministro che dice le cose giuste nel modo sbagliato è diventato un problema per il governo Meloni. Perché questo è il Paese dove, per un politico, già parlare di giustizia è considerata una velleità. Figuriamoci azzardare riforme. Invece Carlo Nordio ha sdottoreggiato per un anno e mezzo come un conferenziere indipendente e coraggioso. Senza mai sbagliare nel merito, con l’ispirazione garantista che tutti gli riconoscono. Ma su nessuno dei nodi che ha sollevato e che fanno della nostra giustizia un fattore di declino è riuscito a imprimere una svolta. Anzi, le sue sortite hanno indotto spesso la premier a correggerlo, quando non a smentirlo apertamente. E talvolta a fare retromarcia. Come quando lui ha censurato l’indeterminatezza del concorso esterno e, subito dopo le sue parole, il governo ha esteso per decreto la disciplina antimafia delle intercettazioni ai reati compiuti con mero metodo mafioso, cancellando un’apertura garantista della Cassazione.
Di fronte allo scandalo dei dossier, Nordio ha varcato la soglia. Ha proposto l’istituzione di una commissione parlamentare senza averla condivisa con Giorgia Meloni, con i suoi viceministri e i suoi uffici, e meno che mai con il Quirinale. Smentito e silenziato, il guardasigilli ha battuto in ritirata, e c’è chi vede il suo destino già segnato dopo le Europee.
Di fronte alla complessità del compito Nordio paga un deficit di tatticismo, indispensabile in un sistema ostaggio delle concrezioni di poteri, ufficiali e non, di parte della magistratura e di certi apparati dello Stato. Tuttavia anche stavolta la sortita del guardasigilli è sacrosanta del merito. Un Paese che assista a un inquinamento investigativo come quello che i dossier del luogotenente Striano hanno mostrato avrebbe il dovere di discuterne in Parlamento. La scelta del governo e dei leader della maggioranza è stata invece quella di confinare il dibattito in quella ridotta parlamentare che è la commissione Antimafia, una sede che è ormai parte di un sistema politico, giudiziario e burocratico in cui il bubbone dei dossier è scoppiato. Il ministro s’ispira a una visione strategica che ha nel primato del Parlamento la risposta politica della democrazia a ogni emergenza che sia reale. Il suo governo invece è mosso da una furbizia tattica, che consiglia di lasciar decantare o piuttosto deflagrare l’incendio nel luogo in cui è scoppiato, cioè nel cuore dell’Antimafia.
Sul breve la furbizia fa premio sulla strategia. Perché depotenzia le incursioni della magistratura nel campo della politica. Ma rispetto al vasto programma di riforme che la maggioranza si è assegnata di fronte al Paese, questa postura difensiva non farà mai segnare alcun gol. Ne è prova la piega che ha preso la riforma delle riforme, cioè la separazione delle carriere. I partiti di centrodestra hanno convenuto di metterla in cantiere ad aprile con un disegno di legge costituzionale. Di cui ancora non si vede traccia. E, soprattutto, non si vede autore. Perché non si è ancora deciso se sarà il governo a intestarsi la riforma, bissando la richiesta di fiducia al Parlamento e al Paese già avviata con il premierato, o se piuttosto a presentare il progetto saranno uno o più partiti della maggioranza. Realismo vuole che questa seconda ipotesi sia la tomba di qualunque speranza di cambiamento.
La fotografia della divisione dei poteri nella nostra democrazia, a meno di un terzo del cammino di legislatura, immortala un guardasigilli che ha già sparato troppe cartucce a vuoto per poter far pensare di averne altre in canna. E di un governo che per ora si tiene in trincea, nel timore di essere impallinato dai colpi di risposta provenienti dal fronte opposto della barricata. Dove i cecchini non si contano più.
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