Professor Guido Tabellini, dal suo osservatorio qual è lo stato di salute dell’Italia? Per il terzo anno il nostro Pil cresce nel 2023 più della media europea e l’export mantiene il suo valore totale. Tuttavia questi risultati non sono frutto solo della resilienza del sistema produttivo, ma anche dei circa venti miliardi del Pnrr e di molte decine di miliardi del Superbonus e di altri crediti di imposta. C’è chi plaude al nuovo miracolo italiano e chi si chiede che cosa sarebbe successo se non avessimo innaffiato l’economia a colpi di deficit mai visti negli ultimi trent’anni. Lei che ne pensa?

«L’economia italiana sta crescendo più del resto dell’Europa e ci sono altre indicazioni positive che vengono dall’andamento dei conti con l’estero, dallo spread, che è sceso a livelli più bassi di quando ha avuto inizio il governo Meloni, dall’inflazione, che pure si è abbassata. Non sappiamo che onere e che effetto abbiano avuto esattamente le misure del Pnrr e del Superbonus. Possiamo però fare un’osservazione superficiale, riferita alla storia d’Italia. Il boom seguito al dopoguerra fu effetto di quella che chiamiamo una crescita di inseguimento, cioè una grande rimonta sulla frontiera tecnologica e sul livello di sviluppo dei paesi più avanzati che l’Italia ha compiuto per imitazione. Non è escluso che questo fenomeno, in forme diverse, si stia ripetendo e che forse iniziamo a vedere gli effetti di una maggiore digitalizzazione della nostra economia e dei nostri servizi, cioè di quelle innovazioni che, nate negli Stati Uniti, hanno preso via via ad espandersi nel nostro Paese. Questa ipotesi è incoraggiante, ma non ci sottrae dall’onere di investire ancora di più sull’economia digitale, poiché le trasformazioni in atto sono rapidissime».

Ma la discesa dell’inflazione non sarà in parte effetto di un calo dei consumi? Converrà che si tratta quantomeno di un segnale ambivalente.

«È più bassa che nel resto d’Europa. Quali che siano le cause, è indizio di un aumento di competitività. Perché in passato, di fronte ad altrettanti rallentamenti della crescita, l’inflazione è rimasta alta».

Non le pare che una linea di continuità bipartisan colleghi governi di segno diverso, che si sono avvicendati alla guida del Paese negli ultimi anni, e che hanno ancorato sempre e troppo la spesa pubblica alla ricerca del consenso? La politica distributiva, fatta di bonus, o incentivi diretti a costruire una domanda inesistente, non è esattamente quella leva fiscale in grado di mobilitare la ricchezza privata e metterla in circolazione virtuosa nel sistema.

«Sì, è accaduto sempre nell’ultimo decennio, fatta eccezione durante il gabinetto Monti. Ma bisogna riconoscere che tutti questi governi hanno avuto un orizzonte temporale corto. Hanno pensato a raccogliere consenso sul breve, commettendo tra l’altro un errore di prospettiva. Perché hanno ignorato che gli effetti delle loro misure avrebbero comunque sopravanzato la loro durata. Cosicché hanno patito tutti quel fenomeno di “incumbent disvantage”, per cui chi governa paga nell’urna, perché non ha il tempo per raccogliere gli effetti positivi di ciò che programma. La temperie perennemente elettorale della politica italiana è specchio di un sistema istituzionale che accorcia i tempi di vita degli esecutivi».

Adesso il governo annuncia una riforma fiscale per alleggerire il ceto medio, cioè quei cittadini che dichiarano più di 50mila euro e che sono i veri perdenti della globalizzazione, perché erroneamente considerati benestanti. Ma, scopri scopri, la riforma fiscale è un “mettere qui e togliere là”. Perché nessun governo ormai pensa neanche lontanamente di sfoltire la spesa pubblica?

«La spesa pubblica che andrebbe tagliata è quella per pagare le pensioni. In gran parte riflette stagioni passate e una stagnazione dei redditi lunga decenni. Ma la spesa per sanità, ricerca e istruzione dovrebbe crescere. Si tratta di rivedere le priorità, per spostare l’asse che regola il rapporto tra le generazioni. E poi bisogna stare attenti ai segnali che, con la fiscalità, si mandano al Paese».

Si riferisce al condono del governo Meloni? Converrà che incoraggiare le imprese più infedeli verso il fisco a dichiarare meno del reddito effettivo, grazie a un concordato, e poi a liberarsi di eventuali cartelle esattoriali inevase dopo cinque anni, non è un bell’esempio.

«No, non lo è. Non solo perché fa salire il carico fiscale delle imprese che le tasse le pagano. Ma perché incoraggia questo sottobosco economico a non innovarsi, a non finanziarti sui mercati e quindi a restare un’economia sub-sviluppata. Oggi lo Stato ha tutti gli strumenti elettronici per combattere l’evasione, incrociando le sue banche dati. Può farlo senza vessare il contribuente onesto e senza dover fare regali alle imprese meno trasparenti e meno produttive».

Il tema dei salari è stato per il governo un banco di prova scottante. Meloni ha fatto sua l’analisi del CNEL, secondo cui un salario minimo orario, stabilito per legge, non è lo strumento più adatto a contrastare il lavoro povero e le basse retribuzioni. Lei che pensa? 

«Penso che Meloni abbia fatto bene. L’idea del salario minimo è comprensibile in via di principio. L’evidenza empirica mostra che in diverse occasioni non ha danneggiato l’economia e ha aumentato le retribuzioni dei lavoratori che non hanno potere contrattuale. Tuttavia c’è il rischio, correttamente sottolineato dal CNEL, che il salario minimo sia fissato a un livello politico e non economico. Nel nostro Paese questo rischio è doppio. Per l’incidenza che ha la politica e perché la produttività è geograficamente eterogenea, cioè è troppo diversa tra Nord e Sud. Il livello politico del salario minimo politicamente immaginato era probabilmente troppo alto per il Sud».

Ma se questo è vero, la soluzione sono le gabbie salariali? Oppure il rinvio della definizione dei salari alla contrattazione di secondo livello, come accade in molti paesi dove il salario minimo esiste?

«Bisognerebbe avere il coraggio di accettare una diversa geografia dei salari, magari cominciando a legarli al costo della vita. Catania non è Milano. Si potrebbe introdurre questo meccanismo nel settore pubblico. Il privato risponderebbe adeguandosi. Capisco che è una scelta politicamente difficile, ma è più giusta. A questa misura bisognerebbe poi affiancare un robusto incremento della contrattazione aziendale, per valorizzare la produttività prescindendo dal contesto geografico. È questa la strategia per connettere la politica dei salari alla giustizia sociale e per impedire che al Sud dilaghi il lavoro nero».

Vuol dire anche rimettere al centro del sistema la produttività?

«C’è, soprattutto nel pubblico, l’esigenza di rendere meritocratico il sistema e selezionare i dipendenti migliori in base alle caratteristiche di cui c’è bisogno».

Il tema del merito è la grande incompiuta delle politiche pubbliche degli ultimi decenni. Per anni è stata una bandiera, a destra ma anche a sinistra. La sinistra sembra essersene pentita, la destra l’ha accantonata trovando più conveniente accomodarsi con le corporazioni. Perché, secondo lei, l’Italia ha fallito sul merito? 

«Penso che si sia rinunciato ad avere un sistema meritocratico nella burocrazia statale. Avremmo molto da imparare dai paesi asiatici, a cominciare dalla Cina e Singapore. Ma al pari del merito abbiamo fatto con la concorrenza».

Converrà che sulla concorrenza la natura corporativa del bacino elettorale del centrodestra abbia avuto in questo scorcio di legislatura un peso decisivo. Balneari, tassisti, agricoltori, magistrati…

«Su questo fronte il governo ha fatto non pochi errori. A cominciare dai tassisti, che sono un problema in tutte le grandi città. Bisogna introdurre nei servizi pubblici elementi di competitività. Se anziché sussidiare il servizio pubblico sussidiassimo i consumatori, avremmo già cambiato qualcosa. Almeno potremmo far pagare più tasse agli studenti delle famiglie abbienti».

Questo accade nei sistemi di flat tax, che sposta la progressività fiscale da una diversa onerosità delle aliquote a una diversa onerosità dei servizi. Era una delle bandiere del governo Meloni, poi è servita solo per blindare il consenso delle partite Iva.

«Nei paesi che devono raccogliere una grande quantità di imposte, come il nostro, la flat tax non è praticabile. Meglio recuperare base imponibile riducendo le tantissime deduzioni fiscali, dietro alle quali ci sono gli interessi delle categorie».

⁠L’innovazione avrà il potente driver dell’intelligenza artificiale. L’Europa si è data una cornice legale che la porrà al riparo dai cosiddetti effetti collaterali? In Italia prevale su questo tema un allarme che altrove, in Europa, non si avverte con la stessa intensità. Lei è preoccupato?

«Un po’ di preoccupazione è difficile non averla, perché nessuno è in grado di capire quali siano gli sbocchi di processi tecnologici che avvengono a una velocità impressionante e che aumentano sempre di più il potere economico e politico di alcune company americane. Allo stesso tempo c’è la preoccupazione di restare esclusi da questa trasformazione, per la quale occorrono investimenti plurimiliardari che è difficile rinvenire nelle singole statualità. Rischiamo di restare un continente che si specializzato su tecnologie intermedie, come l’auto, ma non nei settori digitali sui quali l’intelligenza artificiale fa la differenza».

Vuol dire che per governare processi che impattano sulle democrazie occorre una leva fiscale continentale?

«Ho paura che abbiamo perso il treno e che non bastino più risorse pubbliche per colmare la distanza che ci separa da queste grandi imprese. Oggi il potere di determinare il futuro sviluppo della società è in capo a loro assai più che al governo americano».

Draghi invoca la leva del “debito buono” per fare la difesa comune europea, per governare le transizioni e per proteggere i perdenti della globalizzazione. Lei che pensa?

«Sfide come la difesa, il clima, l’energia, l’immigrazione hanno un senso solo se affrontate su scala continentale e, in alcuni casi, globale. Concordo con la sua visione. Nella misura in cui i benefici di queste politiche riguarderanno le generazioni future è corretto pensare che la leva possa essere il debito pubblico e non soltanto le imposte. Ciò non toglie che partiamo in alcuni paesi da un livello di debito che è già troppo alto. Bisogna stare attenti e non pensare che sia un invito per noi italiani a far salire ulteriormente il nostro».

L’accordo sulla riforma del patto di stabilità non pare consentirlo.

«È un compromesso a cui si è giunti per i veti di un piccolo partito tedesco, che cerca di recuperare voti con una retorica del rigore. Ma ci fa fare molti passi indietro. La bozza che estendeva la discrezionalità della Commissione nel valutare il percorso di rientro dei singoli paesi era una buona soluzione».

Ma una struttura non elettiva e tecnocratica, per quanto legittimata dalla fiducia del Parlamento, può ingerire nelle scelte politiche delle cancellerie sovrane, senza che il populismo ne tragga un argomento di propaganda?

«Non si tratta di ingerire nella sovranità, cioè nella scelta delle politiche statuali, ma nell’efficacia rispetto all’obiettivo di ridurre il debito. Questa è una valutazione tecnica che è giusto sia rimessa ai tecnocrati. Così come deleghiamo la politica monetaria alla Banca centrale e l’Antitrust a un’agenzia indipendente. Dovremmo abituarci ad accettare questa dialettica tra decisore politico e controllore tecnico, che è la vera essenza della democrazia. Non è detto per altro che i politici tutelino le generazioni future più di quanto possa fare un organismo tecnico. Tuttavia hanno ragione, in un certo senso, i populisti quando sostengono che in Europa le decisioni più importanti vengono prese senza tener conto della volontà dei cittadini. Per questo non sarei contrario all’elezione diretta del Presidente della Commissione. Ma resterebbe sempre un ambito tecnico di valutazione, delegato a un’autorità indipendente dalla sovranità popolare. La democrazia è bilanciamento di poteri e saperi».

alessandro barbano

Nato a Lecce il 26 luglio 1961 è un giornalista, scrittore e docente italiano. È stato condirettore del Corriere dello Sport, editorialista di Huffington Post, conduttore della rassegna stampa di Radio radicale, Stampa e Regime, e curatore della rubrica di libri War room books sul sito romaincontra.it. Ha diretto per quasi sei anni il Mattino di Napoli (2012- 2018) e per cinque è stato vicedirettore del Messaggero. Laureato in giurisprudenza all'università di Bologna, giornalista professionista dal 1984, ha insegnato teoria e tecnica del linguaggio giornalistico, organizzazione del lavoro redazionale, sociologia delle comunicazioni di massa, retorica, linguaggi e stili del giornalismo, giornalismo politico ed economico all'Università La Sapienza di Roma, all'Università del Molise, alla Link University e all’Università Suor Orsola Benincasa. È autore di saggi dedicati al giornalismo e a temi di carattere politico e sociale: La Gogna (Marsilio 2023), L’inganno (Marsilio 2022), La visione (Mondadori 2020), Le dieci bugie (Mondadori 2019), Troppi diritti (Mondadori 2018), Dove andremo a finire (Einaudi 2011), Degenerazioni (Rubbettino 2007). Al giornalismo ha dedicato Professionisti del dubbio (Lupetti 1997), l’Italia dei giornali fotocopia (Franco Angeli 2003) e Manuale di giornalismo, (Laterza 2012). Presiede la Fondazione Campania dei Festival. Nominato dal Ministro dei Beni culturali, è componente del consiglio di indirizzo del Teatro di San Carlo e del museo di Palazzo Reale di Napoli. Dall'11 marzo 2024 è direttore del Riformista.