Anticipazione dell’introduzione di “Platone showrunner. Regole filosofiche per scrivere la serialità”, Dino Audino Editore, in libreria dal 10 febbraio

Brad Pitt nei panni di Platone, con Sean Connery e altri grandi attori hollywoodiani: così, in un’intervista a Vanity Fair del 2013, il filosofo francese Alain Badiou immaginava l’adattamento cinematografico della vita del filosofo greco. Il motivo è presto detto: “Perché abbiamo bisogno soprattutto di Platone, oggi”, spiegava il filosofo. Badiou, sprezzante verso i media di massa più popolari come molti della sua categoria, ignorava certamente che Platone fosse già tornato, più nei modi e negli stili che nei contenuti, all’interno del mondo dello spettacolo contemporaneo: nelle serie tv e non al cinema. Nelle case e sui dispositivi che tutti i giorni portiamo con noi, non nelle sale dai grandi schermi.

Socrate, il protagonista di quasi tutti i suoi dialoghi, è, del resto, il primo personaggio seriale della Storia. Platone è tornato, e in perfetto stile platonico: lontano dalla cultura teatrale, legata alle sale dove tutti guardano la stessa cosa; è tornato nella forma più popolare, e ritenuta più alla portata di tutti, delle serie televisive. Abbiamo, è vero, un bisogno disperato di Platone, perché il nostro tempo ha maturato una singolare fuga dal dialogo, e in generale dalla conversazione. Si tratta, a ben vedere, di una fuga paradossale, perché il dialogo è ovunque e il modello espressivo dominante sembra essere proprio quello della conversazione. L’imporsi del Web e dei social network ha fatto della conversazione un gioco interattivo al quale nessuno si sottrae. Tutti pubblicano immagini e testi che divengono oggetto di commenti e apprezzamenti diversi.

Si tratta, tuttavia, di una conversazione ridotta all’osso e controllata, spesso promossa in vista di una gratificazione immediata o per rendere semplicemente più attraenti determinati contenuti. Secondo l’antropologa del cyberspazio Sherry Turkle, la diffusione dei social media ha prodotto, soprattutto nei più giovani, un allontanamento dalla conversazione profonda. Un cineasta, racconta la studiosa, le ha confessato che per lui la vera conversazione è morta nel 2009, l’anno della diffusione planetaria di Facebook. Siamo innamorati della tecnologia e soprattutto delle sue potenzialità comunicative, che ci permettono di avere contatti rapidi, ma spesso superficiali. Siamo sempre meno in grado di affrontare una conversazione complessa, su grandi temi. E il recupero della conversazione inizia dal recupero della nostra attenzione. Ovviamente chi si cimenta nell’arte delle storie non può far finta di niente, potendo anzi intercettare questa mancanza, se non una vera e propria incapacità.

Le storie, soprattutto al cinema, potevano in passato colpirci per le battute sagaci, perfette, che spesso chiudevano una conversazione, mettendo al tappeto o lasciando a bocca aperta personaggi e spettatori. Al contrario, oggi c’è una vera e propria inflazione di simili battute: ne sono pieni i social e i nostri messaggi su Whatsapp. Anche l’azione muta ha subito lo stesso processo di inflazione: ormai per soddisfare la nostra voglia di assistere a prodezze e performance di tutti i tipi basta guardare i video, più o meno amatoriali, pubblicati in rete. Ecco perché si è imposta sempre di più una narrazione complessa, soprattutto attraverso la serialità televisiva, che ha potuto gestire meglio l’arte attraverso la quale si manifesta maggiormente la complessità: quella dei dialoghi.

A ragione, il celebre sceneggiatore David Mamet, autore delle memorabili battute di un film come Gli Intoccabili, ha sostenuto che il dialogo non è essenziale per una buona storia: è piuttosto simile a una stampella o a una granella di nocciole sul gelato. Un bravo sceneggiatore, addirittura, dovrebbe essere capace di scrivere una storia senza inserirvi alcun dialogo. Una considerazione, quella di Mamet, che poteva valere per un mondo che non aveva ancora conosciuto la diffusione dei social media. Oggi, il lavoro sul dialogo è quanto di più urgente sia in termini estetici e narrativi, sia in termini politici: chiusi nelle nostre bolle social, fermi sulle nostre posizioni che continuamente auto-alimentiamo, “immersi” costantemente nel fluido della comunicazione, siamo, nei fatti, abitatori di caverne: rifugi perfetti, ma poveri. Per questo motivo, occorre ritornare all’unico filosofo che ha fatto dell’uscita dalla caverna il senso della crescita umana. Occorre ritornare a Platone.