È concepibile una contemporaneità che pensi se stessa, senza analizzare le proprie specifiche forme di configurazione significativa? No. La risposta è semplice e, tutto sommato, scontata. Perché, alla fine, vale l’adagio hegeliano che la riflessione (filo – o pop-sofica che sia) rimane «il tempo presente appreso nel pensiero». E se ci fossero ancora dubbi in tal senso, basterebbe pensare all’incontrollabile corto-circuito mediatico-esistenziale che ha prodotto la pandemia di Covid-19. Grande teatro pop di riflessione filosofica ad ampio spettro ermeneutico.
Ma allora di che cosa si nutre l’estenuante dibattito intorno all’utilità e alla legittimità di una pop-sofia? Per provare a non cadere nel classico gioco dicotomico del pro e del contro, dei difensori e degli oppositori, è forse il caso di fare un passo in più nell’analisi e scomporre la peculiare duplicità che nutre l’atteggiamento popsofico: da un lato, il cosa e, dall’altro, il come.
Su quali siano gli oggetti privilegiati della popsofia ormai c’è una visione abbastanza condivisa: l’intero mondo dei fenomeni mass-mediali. E quindi gli ambiti espressivi in senso lato visivi (dalla televisione propriamente detta agli sport, ai social network), i campi dell’evoluzione tecnologica (rivoluzione digitale, big data, nuovi oggetti), gli spazi della creatività popolare (mode, linguaggi, comportamenti). Fin qui, verrebbe da dire, niente di realmente nuovo; si tratta infatti della stessa forma di ibridazione che l’urgenza del presente inserisce nel solco della tradizione. Un po’ come il Cristianesimo rinnovò la cultura classica in epoca tardo-antica, la tradizione araba quella europea in epoca medievale, la rivoluzione scientifica quella cristiana all’inizio della modernità. Fino ad arrivare al primato della singolarità rivendicato dall’ermeneutica esistenzialistica e dalla fenomenologia – primato ancora perdurante.
Ecco allora come il centro della discussione vada ricondotto non al cosa, bensì al come, al modo con il quale si esercita la riflessione. Un aiuto per dirimere la questione proviene dalla formulazione linguistica più in uso per descrivere questa forma di pensiero: pop-filosofia. Cosa sia pop è stato definito. Con filosofia invece si entra all’interno di una tradizione storico-culturale amplissima e dai connotati difficilmente delimitabili. Al di là delle questioni teoriche più specifiche, sui quali gli stessi millenni di riflessione non sono riusciti a venirne a capo, risulta abbastanza chiaro come il richiamo a un filone tradizionale comporti l’accettazione delle regole delle quali quel filone si nutre. E quindi una certa conformazione accademica (vale a dire specialistica), un uso codificato dello strumento linguistico-categoriale, un vincolante rapporto con la tradizione di pensiero alla quale si appartiene. Accade però che i fenomeni pop del presente abbiano bisogno di un loro linguaggio, siano tendenzialmente innovativi e, soprattutto, rifiutino ogni élitarismo. Per dirla breve, il cosa contrasta con il come.
Effettivamente qui si presenta un problema, che agli occhi della filosofia tradizione riduce la pop-filosofia a «divulgazione banalizzante». E se, come purtroppo spesso avviene, la riflessione dei fenomeni pop-mediali si connota come una semplice “vestizione” con categorie filosofiche di eventi significativi contemporanei, l’accusa ha una sua ragione d’essere. Ma colpire la parte difettiva di un movimento di pensiero non significa annullarne l’efficacia o il valore. Anzi, al contrario, obbliga a una sforzo ulteriore. Obbliga coloro che si sono presi carico di confrontarsi con le rapide trasformazioni dell’epoca visiva e digitalizzata di sforzarsi verso un maggiore rigore di pensiero e verso la creazione di un proprio solido linguaggio.
Perché la scelta iniziale di utilizzare il termine pop-sofia al posto di pop-filosofia non va intesa come un pure vezzo linguistico, ma come una precisa posizione teorica.