10 anni di Popsophia
Viva le emozioni, aveva ragione Spinoza!

Penso non ci sia donna che, la volta che è stata apostrofata come emotiva – etichetta che ne sottintende altre: ansiosa, agitata, matta, isterica – non abbia subito un furto di autorevolezza; magari piccolo, ma pur sempre un furto. E non ci sia uomo che, almeno una volta, non abbia avuto ritegno a mostrare una lacrima, un tremito; che non si sia preoccupato di lasciar trasparire una smagliatura nel tessuto di una pretesa virilità impermeabile a tutto.
Questo perché alle emozioni si guarda con diffidenza ambigua. In genere sono scoraggiate come segni di debolezza, di mancanza di autocontrollo; occasionalmente, però, le si ostenta con sapiente esibizionismo. Ma già l’ostentazione le snatura: sottrae spontaneità, e le trasforma. Ci avete mai fatto caso? Noi non sappiamo come cambia il nostro viso quando arrossiamo per la vergogna, o quando arricciamo il naso di sorpresa: per saperlo, per saperlo davvero, avremmo bisogno di uno specchio, o di essere ripresi. Ma davanti a uno specchio o all’obiettivo di una fotocamera il rossore diventa artificioso. È per questo che la vergogna, la paura, il piacere, li leggiamo solo sui visi degli altri, non sul nostro: sul nostro saranno altri a leggere quello che mostriamo.
In ogni caso, malgrado esibizionismi, cautele e inibizioni, le emozioni noi continuiamo a provarle: ci colpiscono, ci ricordano che siamo esseri che vivono nel mondo e su cui il mondo ha un effetto. Ci rivelano che l’autarchia assoluta, come l’assoluta atarassia, è impossibile; e che forse è meglio così, perché per essere imperturbabili dovremmo mutilarci di una parte fondamentale della nostra esperienza – del contatto emotivo con le cose.
Ma cos’è, alla fin fine, un’emozione?
La parola è giovane; non così il concetto a cui si riferisce, ma, com’è noto, non c’è cosa che non cambi a seconda del modo in cui ne parliamo. La parola, calco dal francese émotion, che significa il turbamento di uno stato di quiete fisica, si impone solo in pieno Ottocento. Con Thomas Brown, filosofo e poeta scozzese; con William Wordsorth, ai cui occhi l’essenza della poesia si rivela nell’emozione rivissuta nella quiete, emotion recollected in tranquillity. E soprattutto con Charles Darwin, che nel 1872 pubblica la sua monumentale analisi della mimica emotiva, L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali. Prima di questa rivoluzione terminologica, quelle che oggi chiamiamo emozioni sono state per molti secoli, e in molte lingue, a partire dal greco πάσχειν e dal suo omologo latino pati (“patire”), passioni. L’idea sottintesa alla passione è che denoti uno stato di passività: passività dell’anima rispetto al corpo attivo, come compendia Descartes nel suo trattato sulle Passioni dell’anima. A sua volta, quest’idea poggia su un vecchio pregiudizio nei confronti del corpo: come se quello che ci àncora al mondo sensibile fosse in qualche modo un ostacolo al nostro perfezionamento spirituale.
Per la verità, ben prima di Brown, in pieno Seicento, qualche anno dopo Descartes, un filosofo anticonformista e geniale, Baruch Spinoza, aveva già introdotto un’alternativa lessicale a passione proprio per liberare il sentire dall’implicito senso di passività. Spinoza parla di affetti, e intorno alla parola affectus costruisce una teoria straordinariamente moderna, dimostrando che non dobbiamo diffidare di quello che ci dice il nostro corpo, di quello che ci fa sentire; e che rinchiudersi nella pura razionalità non serve, perché non siamo un corpo-burattino in cui è insufflata un’anima, ma corpo e mente insieme.
Oggi, quando parliamo di emozioni, siamo in debito con gli affetti di Spinoza. Come il suo affectus, l’emozione si distingue dalla passione perché non è condannata all’orbita della passività; ma anche dal sentimento, che sentiamo in maniera cosciente e riflessa. L’emozione è qualcosa di più immediato, di più inconsapevole. È una “reazione complessa”, anfibia, che compone variazione fisiologica ed esperienza soggettiva: da un lato l’immediatezza epidermica della risposta fisica agli stimoli esterni, dall’altro il tessuto delle parole con cui ci raccontiamo, la nostra indole e storia personale. A essere coinvolti nell’esperienza emotiva, insomma, sono mente e corpo insieme: aveva proprio ragione Spinoza, come confermano oggi i risultati delle ricerche neuro-scientifiche. Capita che la filosofia, per strade tutte sue, riesca a mostrarci il mondo in prospettive che anticipano le conquiste della scienza.
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