Poltiica
Pontida, il popolo delle scimmie scende in piazza. Se il successo del ceto medio settentrionale spaventa
Nel gennaio 1921 Antonio Gramsci, in un noto saggio intitolato “Il popolo delle scimmie”, stabiliva un rapporto diretto tra il disfacimento della piccola borghesia italiana e il suo abbandono della democrazia parlamentare, di cui era stata fino ad allora l’anima e -insieme- l’elemento corruttore. Le similitudini storiche sono sempre arbitrarie, lo sappiamo.
Il raduno di Pontida
Tuttavia, si pensi all’ultimo raduno di Pontida e ai discorsi pronunciati dai leader della Lega. A parte la retorica antimilitarista, antieuropeista, xenofoba e filorussa del suo segretario e vicesegretario, si può ben dire che il “popolo delle scimmie”, ovvero il ceto medio (che oggi include fasce di classe operaia) insidiato dalla rivoluzione digitale, sia nuovamente sceso in piazza per reclamare più forti identità e tutele sociali. Solo che questa volta il ceto medio destina i propri applausi a clown diversi del circo telematico nazionale, per certi versi nemici: al “condonismo fiscale” di Salvini al Nord (con qualche turbamento di Meloni e Giorgetti), alle sirene assistenziali di Conte al Sud (con i buoni uffici di Schlein).
È questo il dato che lo differenzia da ogni altro periodo di una storia certo non esaltante: la frantumazione del ceto medio, del “partito dell’ordine”, lungo linee di rottura territoriali politicamente conflittuali. Una dura lotta per la ripartizione di risorse scarse tra spezzoni di ceto medio massificato e diviso geograficamente, in una situazione in cui appare via via più limitata la possibilità di pressione verso l’alto (su uno Stato indebitato fino all’osso del collo) e verso il basso (su un lavoro dipendente penalizzato dalla perdita di potere d’acquisto dei salari). Se la protesta dei contribuenti del ceto medio settentrionale dovesse avere successo, si eroderebbe inevitabilmente la base stessa del tenore di vita dei ceti popolari meridionali. Se la domanda di protezione di questi ultimi dovesse invece prevalere, il suo peso sul bilancio pubblico potrebbe diventare insostenibile.
In questo quadro, appare tanto più imprevidente la scelta per il sistema elettorale maggioritario, ancorché nelle variegate versioni “bastarde” in cui è stato sperimentato. Un sistema che per definizione regionalizza la rappresentanza politica e che ha creato un bipolarismo claudicante, con alleanze tenute insieme dall’unico obiettivo di impedire la vittoria dell’avversario. Un sistema, inoltre, che ostacola sia la mediazione sia il confronto tra culture politiche diverse, favorendo, al contrario, come in tempi non sospetti aveva già dimostrato un classico della letteratura politologica, le aggregazioni notabilari e la “dittatura della maggioranza” (Arend Lijphard, “Le democrazie contemporanee”, il Mulino, 1988). Comunque di sicuro non quelle condizioni di razionale alternanza democratica che gli apprendisti stregoni del maggioritario avevano promesso.
© Riproduzione riservata





