Il voto
Referendum, un voto per dare il colpo di grazia ai riformisti e a tutto il lavoro (sul Lavoro) di un decennio
I sostenitori del Sì se la cavano con uno slogan che fa appello ad un voto plebiscitario; per spiegare le ragioni del No sarebbe necessario svolgere una lezione di diritto del lavoro che ripercorra sessant’anni di legislazione in materia
Domenica e lunedì la sinistra reazionaria (tipo Jeremy Corbyn) vorrebbe imprimere il colpo di grazia (copyright Maramaldo) ai superstiti spauriti della sinistra riformista, cancellando con la solennità di un voto referendario l’azione compiuta dai suoi esponenti, in materia di lavoro alla guida del governo nel corso di un decennio. I quattro referendum della Cgil sono finiti al centro della scena politica per caso: promossi per dare sostegno e farsi tirare la volata dal quesito contro la legge Calderoli (che avrebbe chiamato direttamente in causa il governo e la maggioranza) le sentenze della Consulta a questo proposito “hanno rimasto” solo Maurizio Landini che tuttavia ha potuto fare dei suoi quattro referendum (+1) la carta moschicida per tutta la sinistra, la quale, pur non potendo più chiare in causa il centro destra nella sua intenzione di spaccare il Paese sull’autonomia differenziata, ha pur sempre a disposizione gli argomenti della tutela del lavoro in caso di licenziamento (risalendo, magari impropriamente, al filone glorioso della difesa ad oltranza dell’articolo 18 dello Statuto), della lotta alla precarietà e per una maggiore sicurezza sul lavoro.
Le ragioni della contrarietà a questi quesiti sono state esposte. In tema di licenziamento i sostenitori del Sì mentono perché abrogando del tutto il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti erroneamente definito Jobs Act (peraltro già ridimensionato nei suoi aspetti più innovativi dalla giurisprudenza costituzionale) non resusciterebbe la regola della reintegrazione nel posto di lavoro giudicati illegittimi, giacché una legge precedente (l.n.92/2012) destinata a divenire in caso di vittoria dei Sì regola di carattere generale ha già escluso dalla reintegra la fattispecie del licenziamento economico illegittimo la cui sanzione è divenuta in via ordinaria l’indennità risarcitoria (che verrebbe ridotta da un massimo di 36 a uno di 24 mesi). Ma ormai non è più tempo di discutere del merito dei quesiti se non per individuare un motivo in più per non votarli. I sostenitori del Sì se la cavano con uno slogan che fa appello ad un voto plebiscitario; per spiegare le ragioni del No sarebbe necessario svolgere una lezione di diritto del lavoro che ripercorra sessant’anni di legislazione in materia.
Analogo ragionamento vale anche per gli altri quesiti. Sono queste ed altre considerazioni che mi inducono a ritenere incomprensibile l’invito a votare No. Per come si sono messe le cose (e sinceramente credo che non potessero andare altrimenti) votare No o scheda bianca o nulla sarebbe come votare Sì perché tutte queste espressioni di voto concorrerebbero a raggiungere il quorum e quindi a garantire la vittoria del Sì perché è il solo schieramento effettivamente in campo, che ha svolto una campagna elettorale con mezzi e risorse. Per il No si sono schierate solo forze di minoranza. Basta guardare in giro ai manifesti e seguire con un po’ di attenzione la pubblicità indiretta che i media fanno a favore del Sì. In sostanza il No sembra il Savoia Cavalleria che nella pianura del Don carica i panzer sovietici. Coloro che intendono votare No lo fanno per due ragioni: la prima, perché hanno studiato i quesiti e si sono convinti che sono inutili e dannosi. La seconda (certamente maggioritaria) è di natura politica: evitare una vittoria della peggiore sinistra. In questo caso perché non approfittare della rendita di posizione che deriva – legittimamente – dall’astensione? Se i partiti della maggioranza si fossero impegnati nel voto avrebbero compiuto errori imperdonabili: quello di intestarsi una battaglia per obiettivi che non li riguardano perché non hanno alcuna responsabilità per le norme che vengono contestate; impegnandosi per il No avrebbero chiamato in causa il governo fornendo alle opposizioni l’occasione per chiamare l’elettorato a votare contro Giorgia Meloni. Inoltre si sarebbe determinata una situazione paradossale: le forze politiche che votarono contro il jobs act nel 2014/2015 quando erano all’opposizione ora si sarebbero sottoposte, impegnandosi nel voto, al rischio di una sconfitta gratis, mentre quelle che lo votarono vantandosene, oggi vorrebbero abolirle.
Non è un caso che la propaganda della sinistra ha cambiato direzione ed invita a votare comunque piuttosto che a votare Sì. E gli “amici degli amici” sono scatenati nel tentativo di imporre un galateo elettorale che non esiste. Di inventarsi un dovere civico del voto che nella storia dei referendum non è mai stato un dogma. Il mancato raggiungimento del quorum è di gran lunga l’esito più ricorrente. Su 77 referendum abrogativi fin qui svolti, è stato raggiunto il quorum in 39 occasioni: 35 di questi però sono concentrati tra il 1974 e il 1995. Da quel momento in poi, su 29 referendum solo 4 (quelli del giugno del 2011) sono risultati validi. Quanto alle personalità con cariche istituzionali o ai dirigenti di partito che hanno invitato all’astensione, l’elenco sarebbe lungo, bipartisan e ricco di nomi illustri.
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