A Roma ci sono quartieri che sono diventati multietnici nell’indifferenza di tutti. Si odono solo le sirene populiste di destra e di sinistra che raccontano frottole per non affrontare i problemi. “Aiutiamoli a casa loro!” proclama Salvini. “Accogliamoli tutti!” predica la sinistra buonista. L’esito di questo stupido gioco delle parti è la mancanza di ogni politica migratoria e d’integrazione.

Le criticità a Roma

Nel municipio V la comunità bangladese è quella più numerosa tra le comunità straniere: sono in 10mila. Poi ci sono cinesi, pakistani, magrebini e sudamericani. Altre migliaia di persone. In un municipio di 240 mila abitanti sono tanti. È sicuramente un’opportunità di crescita per tutti, come si può negare? Ma rappresenta anche una criticità in un contesto già problematico per l’ordine pubblico. Che si è detto l’11 giugno scorso nella riunione dell’osservatorio per la sicurezza, istituito presso il municipio? C’erano i rappresentanti di prefettura, questura, comune, carabinieri, polizia di stato, polizia locale e servizi sociali. Su Facebook, il presidente del municipio, Mauro Caliste, ha elencato i maggiori problemi sul tappeto: sono aumentati i furti nelle scuole; balordi e tossici disturbano la quiete notturna; bande criminali aggrediscono e rapinano i commercianti. Dall’incontro è scaturito un impegno: più forza pubblica nelle aree sensibili di sera e di notte. E una richiesta: ampliare il sistema di videosorveglianza presso scuole, parchi, asili e spazi pubblici.

Il tema sottovalutato

Ma c’è un tema che si tende a sottovalutare. Dieci anni fa, lo mise a fuoco Franco Gabrielli quand’era prefetto di Roma. E venne a dirlo nel municipio V. Egli aveva individuato un nesso tra numero eccessivo di migranti, controllo del territorio da parte della criminalità organizzata per lo spaccio di droga e la prostituzione e degrado delle aree verdi. È una follia concentrare stranieri dove storicamente ci sono state e, sotto nuove forme, continuano a esserci imprese del crimine. E così l’ex prefetto dimezzò il numero di rifugiati nei centri di prima accoglienza per trasferirli in altre aree della città. È evidente che ora non si può ipotizzare alcuno spostamento di famiglie ormai definitivamente insediate. Ma uno stop si può porre in un municipio che ha esaurito il suo spazio vitale.

L’illusione dei quartieri

Ne parlo con Lidia Tanzi, nome di fantasia di una mantovana che venticinque anni fa si trasferì a Roma e da un decennio vive a Centocelle. Documentarista e girovaga per via del suo mestiere, volle fermarsi e comprò una casa in questo quartiere. Fu subito attratta da quella che sembrava una vivacità civica, fatta di associazioni di volontariato, enti culturali, comitati e centri sociali. Ma l’entusiasmo durò poco. Mi dice: «In queste strutture si respira aria di autoreferenzialità. Non ci sono facilitatori che accompagnino i processi partecipativi. In questo mondo non si genera fiducia e collaborazione, non si fa rete, nessuno si prende cura delle relazioni. Dei problemi si parla, si fanno progetti, ma poi non si affrontano e non si risolvono. Insomma, si sgomita tanto ma solo per affermare sé stessi. Dopo qualche anno, mi sono allontanata da quei contesti senza più voglia di spendere energia e tempo inutilmente».

Sono tanti i problemi a cui Lidia non ha ricevuto risposta: «Ci sono singoli individui – racconta – e gruppi nei nostri quartieri, collegati in qualche modo alle organizzazioni criminali tradizionali, che esercitano un controllo sul territorio e promuovono attività illecite di vario tipo. Dinanzi a questa presenza, l’atteggiamento della gente è perlopiù omertoso e di sudditanza. Cercavo di porre al centro dell’attenzione del mondo associativo questo tema. Ma lo si aggirava come qualcosa di ineluttabile con cui dover necessariamente convivere. Chi dirigeva queste realtà – spiega Lidia – anche quelle impegnate contro le mafie, mi compativa e rideva: “Che vuoi? Sono farabutti ma poveri cristi che cercano di sopravvivere”. E con la supponenza di chi crede di essere sempre più buono di te, mi facevano capire che non era il caso di insistere. Ero circondata da capetti criminali e capetti morali… e a me mancava l’aria. Non se ne poteva parlare anche per un altro motivo: il problema che sollevavo contraddiceva la narrazione del quartiere».

Questa narrazione è molto lontana dalla realtà dei fatti: «Nei nostri quartieri multietnici – si dice e si scrive dappertutto – si convive sufficientemente bene, c’è vivacità culturale e non importa se ogni gruppo fa le sue iniziative nel proprio circuito, se l’esito è un quadro variopinto e piacevole. Ma non è così. Gli autoctoni si riuniscono tra autoctoni. E le comunità straniere vivono tra loro separate e non è facile entrare in relazione con esse. Quando entro in un negozio bangladese avverto diffidenza e fastidio. Il commerciante continua a parlare al telefonino e crede di poter fare il macho come lo fa comunemente con le sue connazionali. Non sarò mai accondiscendente a questa pretesa». Eppure ci sono progetti per gli stranieri che prevedono percorsi di apprendimento dei diritti antidiscriminatori: «Certo! Anch’io ho insegnato italiano a immigrati e, nel programma, era prevista la trattazione di tali argomenti. Ma a loro – sottolinea – questi temi non interessano. La lingua la imparano perché serve a cercare un lavoro e tenerselo. Ma conoscere i nostri ordinamenti, le regole della convivenza che noi adottiamo non è nelle loro corde. Essi hanno il loro modo di vivere, la loro cultura, le loro abitudini. E non vogliono affatto rinunciarvi per aderire allo stato di diritto, cioè all’obbligo di rispettare le leggi del Paese ospitante. Bisognerebbe pensarci a monte: richiedere, al momento in cui vengono accolti, l’impegno di imparare le nostre regole e rispettarle. Ma qui sorge un problema che si collega a quanto dicevamo prima sul clima di illegalità endemica che c’è nei nostri quartieri e che viene comunemente tollerata».

Un problema che oggi è all’ordine del giorno: «Se gli immigrati percepiscono che il clima in cui noi viviamo è di illegalità diffusa perché dovrebbero essere loro a rispettare le leggi? Una parte delle persone che arrivano da altri Paesi ha diverse fragilità: ignorano la nostra lingua, non hanno un titolo di studio, non posseggono un tetto. E se si trovano a vivere in quartieri controllati da piccole mafie, è più facile che siano disponibili a mettersi al servizio dei capetti. E questo si vede ad occhio nudo. Ecco perché affrontare il tema della sicurezza, intesa come azione costante e incisiva per far rispettare le leggi, è decisivo per costruire un clima di convivenza nei quartieri multietnici. Se in un condominio ci sono locali non accatastati come abitazioni dove ci vivono dieci persone, queste che vita potranno condurre e che legame avranno coi capi clan che magari si sono occupati di procurare loro quell’alloggio di fortuna?».

A questo punto chiedo a Lidia se le è capitato di incrociare qualcuno di questi capetti. Lei mi guarda e si rabbuia: «Te lo dirò, ma è una cosa che non faccio volentieri. E se proprio serve raccontarlo, ti chiedo di usare un nome di fantasia. Non vorrei che ritornino gli incubi di cui mi sono finalmente liberata». Quello che ha vissuto è un trauma che non riuscirà mai a cancellare: «Mi sono scontrata – ricorda – con un signore che abitava nel mio condominio e che pretendeva di sottomettermi con minacce e insulti. Mi ha tormentata per un periodo che mi è sembrato infinito, sparlando di me nel quartiere. Ero trattata con diffidenza dovunque andassi. Dai vicini che vedevano quello che avveniva non ho mai ricevuto un segnale di solidarietà. Sono queste – ammette la donna – le persone che mi fanno più paura. I farabutti sono farabutti. Ma i perbenisti che fingono di non vedere e non sentire per mantenere un rapporto riguardoso nei confronti del capetto di turno sono più pericolosi. Questi si fanno forti di quella protezione per esercitare piccole prepotenze verso gli altri. Un comportamento che diventa abitudine, modo di relazionarsi con il mondo. Ecco, è in questa rete perversa che rischiano di cadere maggiormente gli immigrati, almeno le loro fasce più deboli».

La nostra conversazione finisce qui. Saluto Lidia, che vedo di nuovo sorridere con quegli occhi raggianti. La sua terribile esperienza non è più un segreto e averla raccontata è stato un atto liberatorio.

Alfonso Pascale

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