"Credo che Mosca già da tempo non conti molto"
Sisci: “La Russia è una specie di Arabia Saudita con missili nucleari, senza la Cina la guerra in Ucraina sarebbe già finita. Taiwan? Il Giappone esce dall’ambiguità”
“Aumenta la preoccupazione nipponica e asiatica verso la Cina”. Il sinologo analizza i nuovi equilibri dell’Estremo Oriente: “La sorte di Taiwan è vitale per l’arcipelago Fino a ieri Tokyo manteneva un’ambiguità, ora invece la premier Takaichi ha messo Pechino sull’avviso”
Recentemente, nella “questione Taiwan” si è inserito anche il Giappone. La premier giapponese, Sanae Takaichi, ha detto che un attacco cinese all’isola potrebbe giustificare il riarmo di Tokyo e perfino un suo intervento militare a fianco del governo di Taipei. È una manovra che permette di riflettere con Francesco Sisci, sinologo e già corrispondente dall’Estremo Oriente per molte testate, sui nuovi equilibri dell’Estremo Oriente.
Professore, quanto è realistica questa minaccia? E quali conseguenze potrebbe comportare?
«Quello che ha fatto Takaichi con la dichiarazione su Taiwan è stato togliere la foglia di fico su una questione strategica ben nota a tutti. Dalle rotte intorno a Taiwan passa il 50% del fabbisogno alimentare giapponese e il 70% di quello energetico. Se Pechino prendesse il controllo dell’isola, finirebbe l’indipendenza economica e quindi anche politica del Giappone e della Corea del Sud. È chiaro che la sorte di Taiwan è da sempre vitale per l’arcipelago. Solo che fino a ieri Tokyo manteneva un’ambiguità strategica sulla cosa. Takaichi ha deciso di togliere questa ambiguità strategica e mettere Pechino sull’avviso perché evidentemente sentiva un aumento della pressione cinese sulla questione. È interessante che sia in Giappone sia in Asia, tranne che in Cina naturalmente, la gran parte dell’opinione pubblica si sia schierata con la premier. Tutti questi fattori indicano un timore e una preoccupazione giapponese e regionale verso la nuova politica assertiva di Pechino. Questo credo sia l’elemento vero che emerge oggi».
Il Giappone sta rialzando la testa?
«In questa luce non è il Giappone che sta rialzando la testa, ma c’è un aumento della preoccupazione nipponica e asiatica verso la Cina. Trent’anni fa, Tokyo e la regione erano più freddi sulle sorti di Taiwan, e quindi su un’ascesa politica della Cina, oggi tutti sono molto più preoccupati».
A prescindere da questo, però, anche il Giappone sta ricostruendo la sua capacità strategica.
«La Cina ha denunciato nelle ultime ore l’accordo del Giappone di vendere missili alle Filippine, contrariamente alle disposizioni pacifiste della Costituzione giapponese. Quello che stiamo osservando in realtà è che, a fronte di maggiori dubbi sulla presenza di difesa americana in Asia, l’Asia stessa si sta muovendo da sola. Cioè i Paesi asiatici seguono attentamente quello che l’America sta facendo con l’Ucraina, e molti pensano che forse un domani gli Stati Uniti potrebbero esimersi dai loro impegni di difesa. Di fronte a questo, il Giappone ed evidentemente altri Paesi della regione si stanno attrezzando per affrontare quella che reputano sia la sfida regionale, la Cina, anche da soli, anche senza la presenza americana».
Pechino è l’avversario numero 1 degli Usa. E non solo per l’Amministrazione Trump. Nel 2025 però, tra Gaza, Ucraina e altre priorità, Washington si è rivolta alla Cina in maniera aggressiva solo in merito ai dazi. La loro è una rivalità unicamente economica? Tenendo anche conto dell’interscambio interrompibile tra i due mercati.
«Non credo che la rivalità tra Stati Uniti e Cina sia solo economica. Questa è una prospettiva purtroppo fuorviata in Europa. L’America ha rafforzato ogni cooperazione militare e politica in Asia e aumentato la sua presenza militare. I dazi sono solo la punta dell’iceberg».
È di questa settimana la notizia della Cina che ha ridotto in maniera sensibile l’acquisto di titoli del Tesoro Usa. Pechino è scesa al 7,6%, il livello più basso degli ultimi 23 anni. Come dev’essere interpretato questo trend?
«La Cina cerca di differenziare le sue riserve valutarie perché teme che possa accadere qualcosa di simile ai beni russi detenuti all’estero e confiscati con l’inizio della guerra. Infatti sta accumulando anche oro. Certo, in caso di aumento repentino delle tensioni, le riserve cinesi in dollari sarebbero a rischio».
Nella crisi ucraina, il silenzio di Pechino potrebbe essere visto come in linea con la sua tradizionale politica estera, per cui non si interviene se non in casi estremi. D’altra parte, sulla carta, può valere la proporzione per cui la Russia sta alla Cina come l’Ucraina sta a Taiwan?
«Senza il sostegno cinese, l’economia russa sarebbe crollata due o tre anni fa. Questo è il punto vero. E per questo sin dall’inizio del conflitto gli americani hanno tentato di parlare con la Cina di Russia, ma senza successo».
Se però l’Indo-Pacifico diventa il quadrante primario delle relazioni internazionali, anche Mosca rischia un ridimensionamento. È giusto vederla in questo modo? Xi riesce davvero a sottomettere Putin, trattandolo però peer-to-peer?
«Credo che la Russia già da tempo non conti molto. Nella definizione di circa un decennio fa, Mosca è una specie di Arabia Saudita con i missili nucleari. Combatte perché ha il sostegno cinese. Senza tale sostegno, la guerra in Ucraina sarebbe già finita e la Russia a pezzi».
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