Gli indizi ci sono, numerosi ma ancora lontani dal formare prova, che si possa azzardare un’ipotesi di crisi della presa elettorale del racconto populista in Occidente. Ossia di quella epocale operazione di comunicazione, amplificata dal megafono capillare dei social, che ha sostituito il “Vaffa” – nelle sue forme linguistiche più diverse e colorite – alla complessa realtà delle cose, nella politica dell’ultimo decennio. E che ha avuto il suo annus horribilis nel 2016 con la Brexit, Trump e l’avanzata dell’onda grillina in Italia. Proviamo a unire i puntini. Prima delle elezioni europee si temeva lo sfondamento delle forze del populismo nazionalista. Non è successo e gli elettori hanno di fatto rimesso l’Unione dentro un asse politico fortemente ancorato al centro-centrosinistra con iridescenze verdi e con chiara seppur prudente vocazione europeista.

Secondo puntino: la Francia, vicenda complessa, incompiuta ma ricca di segnali. I francesi al secondo turno, quello in cui si vota con la testa e non con la pancia, hanno spedito il rassemblement di Bardella, che già si sentiva a Matignon, al terzo posto, dietro alle sinistre unite (ma già ridivise tra riformisti e populisti) e liberali. Terzo puntino, la Gran Bretagna. Con calma, senza particolare sex appeal popolare, ma con una opposizione fredda e implacabile, i laburisti di Keir Starmer hanno sbancato il voto popolare di un mese fa, e hanno sconfitto una destra che tradendo il thatcherismo aveva assunto i lineamenti clowneschi del principe dei brexiteers Boris Johnson.

Quarto e penultimo puntino. Gli Usa; anche gli elettori americani potrebbero cominciare a dubitare di gente che dice di un’avversaria politica che è “una inutile gattara senza figli”. È presto per coltivare illusioni, ma i primi passi di Harris sembrano poter indicare una riapertura della partita rispetto alla sensazione di vittoria a valanga di Trump. E infine il puntino Italia, che segnala calo di consenso verso le sparate dei bi-populismi: alle europee c’è il vistoso calo del partito di Salvini e di quello di Conte, agitatori di popolo ormai spompati. Fratelli d’Italia vince in casa, ma anche il Pd fa risultato, grazie a molti voti ai candidati riformisti. Alle comunali di giugno il centrosinistra fa en plein dei quattro comuni capoluogo di regione in gara. E poi non sono sfuggiti i segnali dalle due leader della politica nostrana: Meloni, in evidente difficoltà, indecisa sino all’ultimo sulla scelta del proprio posizionamento europeo (un posto in cabina di regia continentale, o il posto di capo del fronte sovranista?) perde il suo capitale politico europeo in pochi giorni.

E poi Schlein, che uscita vincente, si guarda attorno, all’interno e oltre confine, fa quattro conti, inizia a pensare al 2027 e decide di togliere il veto alle alleanze coi riformisti, indebolendo in prospettiva la leva di ricatto sul Pd nelle mani dei populisti di sinistra. E Renzi ci mette pochi secondi a intuire l’opportunità, come quegli attaccanti che vanno dove arriverà la palla prima ancora che la mezzala abbia fatto il lancio. La sensazione è che l’elettorato diffuso stia capendo che sotto il Vaffa niente, che il populismo fa disastri epocali per le finanze pubbliche come il Superbonus, e che non consegna nulla di quello che promette. E allora la domanda è: sarà l’Internazionale democratica, liberale e riformista, capace nell’Occidente di organizzare un’offerta politica credibile per cogliere queste opportunità?

Marco Ghetti

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