Il Tiformista
Spiegare l’Inter ai propri figli partendo da Walter Zenga. Si può vincere e perdere sempre in grande stile
“Il tuo giocatore preferito dell’Inter? Non di ora, di sempre”. È la domanda a cui mi inchioda, senza preavviso, il più piccolo dei miei due figli. Nella mente passa subito un nome prevedibile, Ronaldo Il Fenomeno, ma lo spiazzo con un’altra risposta: “Walter Zenga”. E perché? Per rispondere c’è da fare un discorso che parla di me, del mio modo di vivere e affrontare il mondo. Vivo da sempre temendo il peggio, quasi mai riesco a fare ipotesi positive sulle cose, e non vale solo per il calcio.
La cosa meno piacevole è quella che ritengo più probabile. Zenga di tutto questo è stato il simbolo, un vero e proprio esercizio di maturazione che la vita mi ha imposto, o donato. Ho guardato per anni le sue partite in nerazzurro pensando che avrebbe fatto qualche grave errore decisivo. E cosa accadeva? Che puntualmente lo faceva. Ne fece uno gravissimo anche per tutti noi italiani, a Italia ’90, in semifinale con l’Argentina. Voi tutti non sapevate che Zenga prima o poi avrebbe fatto un’uscita a vuoto come quella che regalò il pareggio a Caniggia, io sì. Soffrivo con lui e per lui, mai da tifoso oltraggiato, come se il danno lo avesse fatto a me, stavo male per come era costretto a vivere quel momento di fallimento. Non capivo ancora, a quel tempo, che lui certamente soffriva meno di me, e che se era diventato il portiere della Nazionale forse era proprio per quella personalità che lo portava a rialzarsi subito dopo gli errori e riscattarsi con le grandi parate che tutti abbiamo in mente.
Io ero abbattuto per giorni da un suo errore, lui lo era al massimo per qualche secondo, poi tornava a giocarsela con coraggio. Vorrei insegnare ai miei figli a non essere come me, ma mi accorgo che finiscono per interiorizzare quello che sono, non quello che dico. Ho detto Zenga anche perché sono le prime due sillabe di quella che è per me una parola sola, tutta unita: “ZengaBergomiBrehmeMatteoliFerriMandorliniBianchiBertiDiazMatthäusSerena”. La pronuncio così, senza pause, come un verso stampato nella mente da quasi quattro decenni. È la prima Inter trionfante della mia vita. Solo uno Scudetto senza continuità, ma bello e certo (lo scudetto dei record). In panchina c’era il grande Trap, Sacchi rivoltava il mondo con il calcio a zona, lui lo lasciava come era, all’italiana. “Noi, quando vinciamo, vinciamo bene” dico ai miei figli.
Penso a quello scudetto e a quel record, ma non è solo questo, è anche un modo per “incassare” i tanti anni di sconfitte incomprensibili quando tutto sembrava dalla nostra parte (5 maggio 2002, io c’ero), la nostra annosa sudditanza al dominio europeo del Milan e quello italiano della Juve, che sono i veri cardini della nostra condizione di perenni sofferenti. Ricordare quello scudetto mi serve anche per comunicare il valore di una vittoria ai miei figli attraverso un paragone temporale: loro hanno visto l’Inter vincere per due volte (2020-21 e 2023-24) mentre io, dopo quello Scudetto del 1988-89, ho dovuto attendere qualcosa come 16 anni. E devo dire che è stato brutto, attendere ma anche vincere, perché siamo tornati a farlo solo con Calciopoli, con la Juve declassata in B dai giudici. Io non lo voglio quello scudetto, non voglio il primo (nel quale eravamo arrivati terzi, 2005-2006) e non ricordo neanche gli altri di Mancini. Non li ricordo perché il nostro grande avversario era stato battuto, ma non da noi. Però se il rivale italiano era stato sconfitto, noi avevamo solo un altro modo per riscattarci: vincere oltre l’Italia. Così fu.
Ricordo uno striscione del maggio 2010, forse nella finale di Coppa Italia all’Olimpico di Roma: “E adesso cosa vogliamo? Tutto”. Io invece volevo innanzitutto una cosa. La Champions? No, lo Scudetto. Anche perché, lottando per tutto, quell’anno stavamo rischiando di perdere il Campionato che era nostro ormai da quattro anni. E cominciai a pensare che c’era da vincere soprattutto quello, perché la Champions non era ossessione ma sogno (copyright Josè Mourinho), invece perdere lo Scudetto sarebbe stata davvero la disfatta totale agli occhi dei tifosi avversari. Ero convinto che avremmo perso. “Ma noi, quando vinciamo, vinciamo bene”. Fui felice per la finale di Madrid col Bayern, eppure l’ansia più grande l’avevo tenuta in corpo nella partita di Siena, quella decisiva per uno Scudetto ormai abituale, ma che nella mia psiche era diventato il vero “tutto”.
Dopo quell’anno? Anni di Strama, Medel, Ricky Alvarez. Altro che Zenga, Bergomi, Bhreme. Anni di dominio bianconero, fino al passaggio di testimone nel 2020 (un Inter-Juve 2-0, 17 gennaio 2021) che ci riconsegnò il potere in Italia. A maggio di quell’anno festeggiai lo Scudetto con i miei figli, ma erano ancora troppo piccoli o poco avvinti per gioire davvero. Poi, il 15 settembre 2021, si giocò in Champions Inter – Real Madrid. Non so cos’è scattato, ma quella sera cominciarono a seguirla in modo diverso: il loro non era più solo guardare, era diventato tifare. Ultimo minuto, gol di Rodrygo, naturalmente una sconfitta, ma avevo due figli interisti. Fu una rinascita anche per me. L’ultima volta che ero andato a San Siro era stato, naturalmente, per una sconfitta (il primo derby del 2003, uscimmo in semifinale, al ritorno in autogrill finii anche sotto una macchina a spinte, col motore spento), da allora ci sono tornato altre volte.
Da genitori tutto cambia, e ci si ritrova a non drammatizzare, o almeno a non mostrarlo. Tante emozioni belle e brutte: la finale in Champions col Manchester, gli scudetti buttati, quello vinto in faccia al Milan nel derby del 22 aprile 2024. Poi quest’anno, a maggio, il momento più intenso. E adesso cosa vogliamo? Tutto? Io, già da un paio di mesi, avevo cominciato a ripetere che mi interessava solo una cosa: lo Scudetto. La Champions può arrivare o non arrivare, è un terno al lotto, ma non possiamo certo perdere lo Scudetto…E così mi convinco che lo avremmo perso. Sappiamo tutti come è andata con la Lazio… E per la Champions? Mio figlio maggiore si è cresimato quel giorno, il 31 maggio.
Forse Dio ci ha protetti così, con una grata “distrazione”, da quella che per altri è stata una tortura immensa, per me ha avuto la forma di tante notizie di gol subiti che arrivavano con cadenza continua (dico la verità: anche più continua rispetto agli standard del mio pessimismo) per inverare quella sconfitta che per me, come sempre, era già una certezza. “Per questo la amiamo – scrive un caro amico – perché ci rimette sempre di fronte al desiderio di grandezza e alla nostra strutturale finitudine, e così ci richiama al nostro destino ultimo: solo Dio ci può salvare”. Molto religioso, ma comunque molto vero. Ora al mio paese abbiamo risposto con la fondazione del primo Inter Club. Ripartiamo così dopo Psg-Inter 5-0. “Noi, quando vinciamo, vinciamo bene”. E anche quando perdiamo!
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