C’è un filo lungo e resistente che lega Napoli a Buenos Aires. Un filo fatto di valigie di cartone, canzoni in dialetto, santi, sogni e partenze. Ma anche di politica, religione, identità e memoria. In questa intervista, lo storico Carmine Pinto ci accompagna in un viaggio tra migrazioni, influenze culturali e ponti simbolici che uniscono le due sponde dell’Atlantico. Un dialogo che parte da ieri per interrogarci sul senso del legame con l’altrove, oggi.

Professore, quali sono stati i principali flussi migratori dal Sud Italia – in particolare da Napoli – verso l’Argentina?

«L’emigrazione verso l’Argentina appartiene alla grande stagione della migrazione transoceanica, che coinvolse l’intera Europa tra la metà dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento. Tra il 1876 e il 1914 circa 3 milioni di italiani si trasferirono in Argentina, provenendo in modo abbastanza omogeneo da tutto il territorio nazionale. In una prima fase l’emigrazione era prevalentemente settentrionale, in una seconda fase divenne più meridionale. A differenza di altri Paesi, l’Argentina accolse migranti da tutta Italia».

Quali furono le principali motivazioni che spinsero così tante persone a emigrare in Argentina?

«L’Argentina all’epoca era un Paese praticamente vuoto, grande otto volte l’Italia. I governi argentini offrivano condizioni eccezionali a chiunque volesse stabilirsi, per popolare un territorio immenso. L’emigrazione italiana fu soprattutto una scelta di opportunità: chi partiva cercava uno spazio dove costruire un futuro, non fuggiva da una dittatura. Quindi non parlerei di “esilio”, ma di migrazione volontaria».

Possiamo parlare di una «napoletanità in esilio»?

«Assolutamente no. L’esilio è una fuga da un regime oppressivo. Qui si trattava di opportunità. Emigravano agricoltori, artigiani, ma anche professionisti e laureati. L’Argentina rappresentava una terra nuova, aperta, dove poter ottenere ciò che in Europa non era più possibile».

Quali sono i segni tangibili della cultura italiana – e napoletana – nella società argentina?

«I segni sono ovunque. L’Argentina è il Paese con più associazioni culturali italiane al mondo, centinaia di società, giornali in lingua italiana, istituzioni religiose. La presenza italiana è fortissima nella cultura, nella religione, nella cucina. Inizialmente arrivarono molti liguri e piemontesi, ma oggi si è creata una mescolanza profonda. Non dimentichiamo che il 50% degli argentini ha discendenza italiana, e alcuni anche il doppio passaporto».

Ci sono figure emblematiche di questo legame?

«Ovviamente. Da Maradona al Papa, da Omar Sívori a Javier Milei, da presidenti a militari, fino a scrittori, giornalisti, uomini di cultura. L’influenza è vastissima, non finiremmo mai di elencarle».

Quanto ha restituito invece l’Argentina all’Italia? In particolare a Napoli?

«Il legame con Napoli è stato più simbolico che reale. L’emigrazione argentina non è stata prioritaria per Napoli, che ha guardato più agli Stati Uniti. Tuttavia, la mitizzazione di Maradona ha creato un’immagine dell’Argentina molto forte nell’immaginario collettivo napoletano».

E qual è oggi il ruolo possibile di questo legame per le nuove generazioni?

«Oggi viviamo in un mondo iper-connesso. Le esperienze migratorie e culturali si intrecciano e si contaminano. L’Argentina è il Paese più europeo d’America, ed è sicuramente un luogo dove investire relazioni culturali e sociali per costruire ponti futuri».